di Giulio Andreani

Il professionista che ha ricevuto un pagamento per le prestazioni rese a un’impresa fallita non deve applicare l’Iva dall’ammontare percepito, se l’importo corrispostogli è inferiore all’ammontare del solo compenso. Così la sentenza 802/8/2021 della Ctr dell’Emilia-Romagna rimette in discussione l’indirizzo che, volenti o nolenti, nel corso del tempo si era formato su tale argomento.

Prima e dopo la legge di Bilancio 2018

I termini della questione sono i seguenti. Le retribuzioni dei professionisti dovute per gli ultimi due anni di prestazioni sono assistite, in base all’articolo 2751-bis, n. 2, del Codice civile, da privilegio mobiliare generale, mentre i crediti aventi a oggetto la rivalsa dell’Iva – sino alle modifiche introdotte con l’articolo 1, comma 474, della legge 205/2017 (la cosiddetta legge di bilancio 2018) – sono stati assistiti da un privilegio speciale sui beni ai quali si riferisce la prestazione, a norma dell’articolo 2758, comma 2, del Codice civile, e dell’articolo 18 del Dpr 633/1972; questo secondo privilegio, sia perché è speciale e insiste su beni generalmente inesistenti al momento dell’esecuzione, sia perché di grado inferiore rispetto a quello relativo al compenso del professionista, si è normalmente rivelato del tutto inefficace a garantire il pagamento dei crediti derivanti da prestazioni di servizi, di cui teoricamente è stato posto a presidio.

L’assetto normativo vigente sino alle modifiche introdotte con la legge di Bilancio 2018 è stato quindi tale da far sì che ogniqualvolta, nell’ambito di un’esecuzione individuale o concorsuale, a causa dell’incapienza dell’attivo del debitore un credito professionale non potesse essere soddisfatto integralmente, vale a dirsi per l’intero importo dell’imponibile e della relativa Iva, l’ammontare corrisposto venisse pagato a titolo di compenso e non anche dell’Iva.

L’interpretazione delle Entrate

Secondo l’agenzia delle Entrate (risoluzione 127/2008), se l’importo liquidato dal giudice fallimentare (o dell’esecuzione) risulta inferiore all’ammontare complessivo del credito professionale comprensivo dell’Iva, il professionista nel momento in cui a seguito del pagamento ricevuto emette la fattura (non avendola emessa in precedenza, in quanto non tenutovi) deve ridurre proporzionalmente la base imponibile, rilevando la relativa imposta mediante lo scorporo della stessa dall’importo percepito; ciò perché, sotto il profilo fiscale, tale importo, sebbene corrisposto a titolo di solo compenso e non d’imposta, deve essere comunque “scomposto” tra imponibile e Iva. Pertanto, se ad esempio il credito di un professionista dell’importo di 12.200 euro (costituito per 10.000 dal compenso imponibile e per 2.200 dall’Iva), per il quale non sia stata precedentemente già emessa la fattura, viene corrisposto in costanza di procedura a titolo di remunerazione per 7.000 euro (e dunque in misura inferiore all’ammontare del solo compenso), sotto il profilo fiscale tale pagamento è comunque da qualificare per 5.737,70 euro come imponibile e per 1.262,30 euro come Iva, indipendentemente dalla qualificazione a esso attribuita ai fini della sua
assegnazione al creditore. Conseguentemente il professionista che percepisce la somma deve computare a debito nella sua liquidazione periodica dell’Iva l’importo di 1.262,30, dal che discende una riduzione del beneficio reale generatogli dall’incasso (5.737,70) rispetto a quello corrispondente all’ammontare complessivamente percepito (7.000).

L’agenzia delle Entrate ha infatti ritenuto non condivisibile l’opposta soluzione costituita dall’emissione di una fattura la cui base imponibile sia rappresentata dall’intero importo ricevuto (nell’esempio 7.000 euro), calcolando su di esso l’Iva (1.540 euro) e recuperando la stessa tramite l’emissione di una nota di variazione ai sensi dell’articolo 26 del Dpr 633/1972 del medesimo importo (1.540), sul presupposto che si tratti di iva non incassata. Infatti, affinché sia possibile emettere tale nota di variazione – ha affermato l’agenzia – «è necessario che successivamente all’emissione della fattura venga a mancare in tutto o in parte l’originaria prestazione imponibile» e non, quindi, che l’impossibilità di recuperare l’imposta esposta in fattura già sussista nel momento in cui quest’ultima viene emessa. Né l’Agenzia ha condiviso la ulteriore soluzione costituita dall’emissione – da parte del professionista, al momento del ricevimento del pagamento – di una fattura in cui l’intera somma percepita viene imputata al compenso e su di essa non viene applicata l’Iva perché tale condotta violerebbe il principio della inscindibilità dell’imposta dall’imponibile, trasformando un’operazione imponibile ex articolo 3 del Dpr 633/1972 in un’operazione fuori dal campo di applicazione dell’imposta.

Il caso esaminato

È sostanzialmente questo il caso esaminato dalla Ctr dell’Emilia-Romagna con la sentenza 802/8/2021, in cui un professionista, a seguito del ricevimento della somma di 18.941,87 euro a titolo di pagamento parziale del proprio credito (di entità più elevata, anche senza considerare l’Iva), aveva emesso la fattura indicando come imponibile l’intero ammontare ricevuto (18.941,87 euro) e applicando su di esso l’Iva (all’epoca) del 20% (3.788,37 euro), indicandola come non percepita e senza annotarla nei relativi registri, evitando quindi che essa rilevasse ai fini della liquidazione periodica del tributo.

Nel corso degli anni la giurisprudenza ha escluso che il credito per la rivalsa dell’Iva relativo alla prestazione del professionista nei confronti di un’impresa fallita possa essere considerato prededucibile, e che quindi la curatela debba versarlo al creditore “a incremento” del compenso a questi corrisposto, semplicemente perché sorge nel corso della procedura contestualmente all’emissione della fattura. Infatti, tale debito, indipendentemente dal fatto che la fattura a esso relativa venga emessa in costanza di una procedura concorsuale, è generato dalla «prestazione professionale conclusasi prima della dichiarazione di fallimento» e non viene «contratto dal curatore per l’amministrazione dei beni fallimentari o per spese di procedura» (Cassazione, tra le altre, sentenze n. 2438/2006, n. 3582/2011, n. 8222/2011 e n. 1034/2017); non è inoltre qualificato come prededucibile da una specifica disposizione di legge, né sorge in occasione o in funzione di procedure concorsuali. La tesi della prededucibilità del credito di rivalsa è dunque da rigettare, sia per tali motivi sia perché condurrebbe a trattare diversamente i professionisti che, relativamente ai compensi loro spettanti per prestazioni rese a un’impresa poi fallita, hanno emesso la fattura prima dell’apertura della procedura concorsuale rispetto a quelli che invece l’hanno emessa successivamente solo a seguito del ricevimento del pagamento (parziale) del loro compenso.

Con la sentenza 802/8/2021 la Ctr dell’Emilia-Romagna ha disatteso l’indirizzo dell’agenzia delle Entrate, ritenendo inconciliabile con il principio di capacità contributiva e con quello di libera concorrenza la “scomposizione” (sopra esposta) della somma ricevuta
in pagamento dal professionista tra imponibile e Iva, sostenuta dal Fisco. Sotto il primo profilo perché il contribuente si vede «applicata la ritenuta su una quota parte del proprio compenso che dovrà considerare imposta sul valore aggiunto scontando così, seppur parzialmente, l’imposizione diretta su una quota di altra imposta (per l’appunto l’Iva)»; sotto il secondo profilo, perché «il professionista dovrà rinunciare – senza che ne sussista l’obbligo – a una parte del proprio compenso per assecondare una pretesa erariale aggiuntiva ……, a causa del carente quadro normativo di riferimento».

I punti critici

I motivi su cui la Ctr emiliana ha fondato la sua pronuncia non appaiono prima facie di per sé convincenti. Non il primo, in quanto basato su un presupposto fattuale non corrispondente al regime applicabile secondo la tesi del Fisco. Infatti, dalla “scomposizione” della somma percepita dal professionista tra imponibile e iva prevista da tale tesi consegue che, una volta che tale ammontare è stato così riqualificato ai fini tributari, la riqualificazione operata rileva anche ai fini delle imposte sui redditi , indipendentemente dal fatto che la somma sia stata pagata integralmente a titolo di compenso; conseguentemente la ritenuta dovrebbe essere applicata – dalla curatela fallimentare che ne esegue il pagamento – non sull’intero ammontare corrisposto, ma solo su quella parte di esso che, sotto il profilo fiscale, è considerato imponibile (pari a 15.784,89 euro nel caso esaminato dalla Ctr emiliana, e non a 18.941,87 euro). Pertanto, seguendo l’indirizzo dell’agenzia delle Entrate, non si verifica alcuna doppia imposizione né alcuna violazione del principio di capacità contributiva, poiché la ritenuta viene calcolata solo sull’ammontare che concorre a formare il reddito del percettore, secondo le regole ordinarie, e non anche sul tributo. Non appare inoltre convincente il secondo motivo affermato dalla Ctr, perché non vi è dubbio che sussisteva nel 2009 un «carente quadro normativo», ma questo non poteva essere modificato dall’interprete, bensì solo dal legislatore, com’è del resto poi avvenuto con la legge di Bilancio 2018.

Tuttavia, la conclusione cui è giunta la Ctr rende necessaria un’analisi più ampia di quella risultante dai motivi della sentenza, analisi che attiene alla possibilità di “scindere” il nesso esistente tra imponibile e imposta, che è proprio ciò che nel caso di specie il contribuente aveva fatto, qualificando come compenso l’intera somma corrispostagli e assumendo che nulla gli fosse stato pagato (e quindi dovesse versare all’Erario) a titolo d’imposta. Tale collegamento è del resto smentito ai fini fallimentari, secondo la giurisprudenza, dal diverso grado di privilegio che assiste il credito e il tributo; ciò rileva però ai fini dell’esecuzione del riparto delle somme fra i creditori e non anche sul piano fiscale. Sotto questo secondo profilo la “scissione” del nesso tra imponibile e tributo appare assai più problematica e tale problematicità sembrerebbe confermata dall’intervento con cui il legislatore, mediante la legge di Bilancio 2018, proprio allo scopo di eliminare la distorsione evidenziata dalla Ctr dell’Emilia-Romagna, ha risolto il problema, cioè estendendo al credito per la rivalsa dell’Iva il privilegio che già assisteva la remunerazione del professionista. In ogni caso, dalla tesi del Fisco può derivare la violazione del principio di capacità contributiva lamentata dalla Ctr, solo se si assume che l’imponibile può essere “scisso” dal tributo, nel senso che può subire una sorte autonoma e diversa da quella della relativa imposta.

Solo grazie alla “scissione” si può affermare che il pagamento ricevuto dal professionista non comprende anche l’Iva e pertanto solo sulla base di questo presupposto può affermarsi che, a causa della scomposizione richiesta dal Fisco, secondo cui ogni pagamento comprende inevitabilmente imponibile e Iva, il professionista subisce una riduzione del proprio compenso e della propria capacità reddituale. La Ctr avrebbe dovuto dedicare a questo profilo maggiore approfondimento.

I crediti sorti dal 2018

Come si è anticipato, la questione è stata risolta dall’intervento del legislatore, i cui effetti si producono tuttavia solo per i crediti sorti dal 1° gennaio 2018 e permane per quelli sorti precedentemente. A questo riguardo occorre infatti considerare che la legge di Bilancio è entrata in vigore in tale data senza introdurre una disciplina transitoria per i crediti sorti anteriormente: la sua efficacia temporale è quindi disciplinata dai principi affermati dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 5685/2015), secondo cui le norme sui privilegi sono disposizioni di diritto civile che attengono alla qualità di alcuni crediti, consistenti nella loro prelazione rispetto ad altri, trovando quindi applicazione (salvo espressa deroga normativa) il principio di irretroattività in caso di successione temporale delle leggi in tema di privilegi. Pertanto, in assenza di una disposizione transitoria, in base a tale principio la novità legislativa deve ritenersi applicabile solo per i crediti sorti dal momento di entrata in vigore della legge di Bilancio 2018 e, quindi, la nuova causa di prelazione non può essere fatta valere per i crediti sorti anteriormente al 1° gennaio 2018 (in questo senso si è tra gli altri espresso il Tribunale di Milano con la circolare 23 gennaio 2018).

Poiché il riparto a favore dei creditori viene eseguito nelle procedure concorsuali diversi anni dopo l’insorgenza dei relativi crediti, non sono quindi poche le situazioni rispetto alle quali le considerazioni sopra esposte continuano a essere attuali, nonostante le modifiche introdotte con la legge di Bilancio 2018.