di Giulio Andreani e Angelo Tubelli
1. Premessa
Il Tribunale di Milano, con un articolato provvedimento del 25 febbraio 2021, si è pronunciato sia sul criterio di ripartizione delle somme ai creditori applicabile nel concordato preventivo sia sulla natura (“endogena” o “esogena”) dei flussi generati dalla prosecuzione dell’attività da parte dell’impresa debitrice. In proposito i giudici meneghini hanno sancito (i) che il principio da adottare ai fini del riparto è quello della “priorità assoluta” e (ii) che costituiscono finanza esogena, cioè esterna, solo gli apporti che non transitano nel patrimonio del debitore, con la conseguenza che i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività dell’impresa costituiscono finanza endogena.
I principi affermati si riflettono anche sul trattamento dei crediti tributari (e contributivi) e quindi sulla proposta di transazione fiscale che l’impresa debitrice deve presentare per disciplinarne il soddisfacimento.
2. In merito alla regola della priorità assoluta
Com’è noto, l’art. 160, comma 2, l.f. stabilisce che:
a) la proposta di concordato può prevedere la soddisfazione non integrale dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, ma a condizione che la misura di detta soddisfazione risulti “non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lett. d)”;
b) il trattamento stabilito per ciascuna classe non può “avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione”.
Secondo i sostenitori della tesi della priorità assoluta, queste disposizioni impongono l’obbligo di prevedere l’integrale pagamento del credito di rango superiore prima di poter soddisfare quelli di rango inferiore [1]. Ciò perché, se la consistenza del patrimonio non consente di soddisfare i crediti assistiti da un certo grado di privilegio, significa che non può residuare nulla di detto patrimonio da attribuire ai creditori di rango inferiore; viceversa, se, in tal caso, una parte del patrimonio venisse attribuita ai chirografari, essa risulterebbe sottratta ai creditori muniti di privilegio generale mobiliare, che così sarebbero soddisfatti in misura inferiore rispetto a quella ottenibile in sede di liquidazione fallimentare, venendo perciò contravvenute entrambe le due regole stabilite dall’art. 160, comma 2.
Secondo la tesi della priorità relativa, invece, le suddette norme non osterebbero alla possibilità di prevedere la falcidia del credito di rango poziore e il pagamento del credito di rango minore, essendo sufficiente al riguardo assicurare al primo un trattamento più favorevole (sotto il profilo strettamente quantitativo e/o per quanto attiene la tempistica dei pagamenti) rispetto a quello riservato al secondo [2]. Questa è infatti la regola generale contemplata dall’art. 11, par. 1, lett. c), della Direttiva (UE) 2019/1023 del 20 giugno 2019 (che tuttavia consente agli Stati membri di derogarvi), la quale troverebbe fondamento nella generale possibilità di far partecipare il debitore ed i soci alla distribuzione degli utili del concordato preventivo (incentivandone così anche il ricorso), nonché nella maggiore efficienza di cui potrebbe così godere la procedura concordataria. A sostegno di questa seconda tesi è stato in particolare osservato che, con l’apertura del concordato, il patrimonio del debitore “diventa, più che la misura del soddisfacimento dei creditori muniti di privilegio generale, lo strumento per la soddisfazione, secondo le modalità proposte, dell’intera massa dei creditori. In virtù di ciò, il privilegio generale, privo dei cennati caratteri di assolutezza ed immediatezza, si traduce in una regola di preferenza dei creditori privilegiati rispetto ai creditori chirografari (rispetto al solo patrimonio attuale, come meglio si vedrà di seguito), ma non in una regola di obbligo di destinazione esclusiva del patrimonio mobiliare a soddisfazione dei primi” [3].
Sulla questione un importante chiarimento è pervenuto dalla Corte di cassazione con la sentenza 8 giugno 2020, n. 10884, secondo cui nel concordato preventivo il soddisfacimento parziale dei crediti muniti di privilegio generale può trovare un fondamento giustificativo solo nell’incapienza del patrimonio mobiliare del debitore; infatti: o i beni hanno un valore eccedente i crediti privilegiati, e allora questi devono essere soddisfatti integralmente, o i beni hanno un valore inferiore rispetto ai crediti privilegiati, e allora i creditori di rango inferiore non possono essere soddisfatti in alcuna misura, risultando prioritario il pagamento di quelli di rango superiore, che rimangono essi stessi parzialmente insoddisfatti. Conseguentemente, il creditore chirografario non può vedere “adempiuta, neanche parzialmente, la propria obbligazione se il presumibile valore di realizzo dei beni su cui insiste il diritto di prelazione non consenta di soddisfare i creditori privilegiati”.
Il principio di diritto affermato dai giudici di legittimità con la sentenza citata è stato fatto proprio dal Tribunale di Milano con il provvedimento del 25 febbraio 2021, con il quale ha testualmente affermato quanto segue: “la prima delle condizioni poste dall’art. 160, comma 2, implica che l’ammontare della somma ritraibile dalla liquidazione concorsuale segni il limite minimo di soddisfacimento dei creditori privilegiati: e da tale limite si desume che il creditore chirografario non possa vedere adempiuta, neanche parzialmente, la propria obbligazione se il presumibile valore di realizzo dei beni su cui insiste il diritto di prelazione si ammetterebbe che, sulla medesima massa attiva, creditori di rango inferiore (quali sono quelli in chirografo) siano soddisfatti prima che lo siano, per l’intero, i creditori di rango poziore. E un tale risultato urterebbe, come è evidente, non solo col principio per cui il piano concordatario deve assicurare la soddisfazione dei creditori privilegiati in misura almeno pari a quella cui gli stessi potrebbero aspirare, in ragione della loro collocazione preferenziale, in caso di liquidazione, ma anche con la regola che vieta di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione”.
Ne discende: 1) con riguardo ai crediti assistiti da ipoteca, pegno e privilegio speciale, che essi possono essere soddisfatti parzialmente, solo se il valore dei beni su cui tali diritti di prelazione insistono è inferiore all’ammontare del relativo credito; 2) con riguardo ai crediti assistiti da privilegio generale sui beni mobili, che, se il valore di tali beni è inferiore a quello delle ragioni di credito dei titolari dei relativi diritti di prelazione, i crediti privilegiati non possono essere ulteriormente falcidiati a beneficio di quelli chirografari.
Stando così le cose, i creditori chirografari possono essere soddisfatti solo in presenza di beni immobili ultra-capienti e/o dell’apporto di finanza esterna, considerando solo quella che non comporti un incremento né dell’attivo né del passivo dell’impresa debitrice. Anche questa affermazione riflette quanto chiarito dai giudici di legittimità con la citata ordinanza n. 10884/2020, secondo cui, qualora i beni, oggetto del privilegio generale, risultino essere insufficienti ad assicurare il soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati, “il soddisfacimento dei creditori chirografari non può che dipendere, in tal caso, dalla presenza di beni immobili (ovviamente per la parte che non è deputata a garantire i creditori che vantino un titolo di prelazione su di essi) o da liquidità estranee al patrimonio del debitore stesso”, ovverosia in presenza della cosiddetta finanza esterna.
3. La nozione di “finanza esterna” e la qualificazione come “finanza endogena” dei flussi di cassa derivanti dalla prosecuzione dell’attività
Come enunciato dalla Corte di cassazione con la stessa sentenza 8 giugno 2012, n. 9373, il divieto di alterazione della graduazione dei crediti muniti di prelazione di cui all’art. 160, comma l.f., trova il suo limite nel patrimonio del debitore, sul quale ai sensi dell’art. 2741 c.c. i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti, salve le cause legittime di prelazione. L’ultima norma citata “pone le premesse della soddisfazione dei crediti secondo l’ordine delle prelazioni, essendo a questi effetti irrilevante quale sia l’origine e la provenienza dei mezzi finanziari con i quali il debitore paga i suoi creditori”, ma né essa né il citato art. 160, comma 2, dettano regole particolari per il collocamento dei crediti prelatizi in relazione all’apporto effettuato dal terzo finanziatore che interviene con mezzi propri a pagare i debiti del fallito, che perciò non deve sottostare alle regole del concorso.
La corretta individuazione delle risorse finanziarie non provenienti dal patrimonio del debitore, e perciò definite finanza “esterna” o “esogena”, si rivela dunque spesso determinante ai fini della fattibilità del concordato, potendo essere – solo tali risorse e non anche quelle “endogene” – liberamente distribuite senza dovere rispettare l’ordine delle cause di prelazione. Per la medesima ragione diventa altrettanto spesso decisiva la possibilità di ricondurre o meno in tale nozione i flussi di cassa generati dalla prosecuzione dell’attività economica (fattispecie non espressamente presa in esame dalla Corte di Cassazione nella sentenza sopra citata) [4].
Anche su tale dirimente questione si è espresso il Tribunale di Milano, il quale ha disposto che i flussi di cui trattasi costituiscono finanza endogena, così modificando l’orientamento precedentemente espresso con decreto del 3 novembre 2016.
Con quest’ultima pronuncia, infatti, i giudici milanesi avevano condivisibilmente osservato come la nuova finanza deve “essere intesa nel concordato in continuità come operativamente limitata, nel tempo, alla data della presentazione della domanda di concordato e nella ‘dimensione applicativa’ al patrimonio della concordataria esistente a quella data. Il parametro che costituisce il limite di riferibilità per appurare se vi sia violazione o meno dell’ordine della prelazione o se la stessa sia degradata e, quindi venuta meno e incorporata nei chirografi, è il momento della presentazione della domanda, perché ciò che è valutabile ai fini della capienza in sede di redazione del piano è solo il patrimonio attuale della società e solo esso sarebbe passibile di azioni esecutive o di collocazione sul mercato al cui risultato si dovrebbe comparare l’offerta formulata dalla società per appurare se essa lede il privilegio o meno. È evidente che tale comparazione non può essere condotta con il patrimonio che residuerà al termine di 5 anni di piano caratterizzato da reinvestimenti, eseguiti con finanza esterna, sia perché esso è indeterminato per definizione, sia, soprattutto, perché esso, senza la nuova finanza (…) non potrebbe certo avere quelle dimensioni che presumibilmente avrà, e probabilmente non sussisterebbe per nulla, visto che in assenza di concordato non vi è alcuna alternativa al fallimento”. Sulla base di queste considerazioni venivano qualificati come nuova finanza, e quindi svincolati dal rispetto dell’ordine delle cause di prelazione, i flussi di cassa generati dalla prosecuzione dell’attività, sul presupposto che il patrimonio del debitore nella misura determinata alla data di apertura della procedura costituisse il naturale spartiacque tra finanza endogena e finanza esogena.
Un’attenuazione di tale indirizzo era invero rilevabile già nel successivo decreto del 5 dicembre 2018, con il quale lo stesso Tribunale di Milano aveva ricondotto nella nozione di finanza esterna i soli flussi generati dalla prosecuzione dell’attività aziendale a propria volta resa possibile unicamente dall’apporto di un assuntore, ereditandone il carattere esogeno.
Con il citato provvedimento del 25 febbraio 2021 i giudici milanesi hanno definito ulteriormente il proprio orientamento sulla nozione di finanza esterna, la cui individuazione, in assenza di una definizione normativa, dovrebbe avvenire unicamente al ricorrere di entrambe le “condizioni indicate da Cass. 8 giugno 2012, n. 9373: e cioè allorché l’apporto del terzo risulti neutrale rispetto allo stato patrimoniale della società, non comportando né un incremento dell’attivo patrimoniale della società debitrice, sul quale i crediti privilegiati dovrebbero in ogni caso essere collocati secondo il loro grado, né un aggravio del passivo della medesima, con il riconoscimento di ragioni di credito a favore del terzo, indipendentemente dalla circostanza che tale credito sia stato postergato o no”.
Dunque il patrimonio del debitore continua a costituire lo spartiacque tra finanza endogena e finanza esogena, ma non più nei limiti dell’entità determinata alla data di apertura della procedura, come stabilito con il provvedimento del 2016, ma secondo una definizione idonea ad attrarre tutte le variazioni patrimoniali successive a tale data, comprese quelle prodotte dai flussi di cassa generati dalla prosecuzione dell’attività e finanche dagli apporti del terzo finanziatore qualora vengano “versati direttamente alla società concordataria” (perché in tal caso “si confonderebbero col suo patrimonio e si otterrebbe l’effetto di dover seguire le cause legittime di prelazione”). In definitiva, partendo dall’opposto (e più ampio) concetto di finanza endogena, le risorse finanziarie qualificabili come finanza esterna andrebbero individuate “per differenza” e dunque ricercate nelle risorse finanziarie messe a disposizione da terzi a vantaggio dei creditori nell’interesse del debitore, ma senza transitare in alcun modo nel patrimonio dello stesso.
4. I riflessi dei principi statuiti dal Tribunale di Milano sulla transazione fiscale (e contributiva)
Non vi è dubbio che la congiunta applicazione della tesi della priorità assoluta e del principio secondo cui i flussi gestionali costituiscono finanza endogena, distribuibile dunque secondo l’ordine delle cause di prelazione sulla base della regola della priorità assoluta, riduce notevolmente le possibilità di soddisfacimento dei creditori chirografari, in assenza di un apporto di denaro da parte di terzi.
Ciò posto, e rinviando a precedenti scritti per la censura della tesi che qualifica i flussi in parola come finanza endogena, è utile soffermarsi sui riflessi che la congiunta applicazione di tali regole genera sul trattamento dei crediti tributari (e contributivi), i quali sono quasi integralmente assistiti da una causa legittima di prelazione.
Infatti, atteso che, secondo il Tribunale di Milano, i flussi generati dalla continuazione dell’attività aziendale nel concordato preventivo devono essere ripartiti fra i creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione (non costituendo finanza esterna, ma risorse derivanti dal patrimonio dell’impresa debitrice) e che l’attuale formulazione dell’art. 160, comma 2, impone l’applicazione della regola della priorità assoluta, le risorse costituite dai suddetti flussi potrebbero essere destinate al pagamento dei creditori di rango inferiore solo se i crediti tributari (e contributivi), in quanto di rango superiore, siano stati integralmente soddisfatti; conseguentemente, se il patrimonio dell’impresa debitrice non è sufficiente per assicurare il pagamento integrale di tali crediti (come normalmente accade), il concordato risulta attuabile soltanto grazie agli apporti di terzi che non transitino nel patrimonio dell’impresa debitrice.
Tuttavia, pur avendo la regola della priorità assoluta di per sé valenza generale e riguardando tutti i crediti, sussistono buone ragioni per escludere che essa debba essere applicata anche ai crediti tributari.
Infatti, l’art. 182-ter l. fall. individua nella convenienza il criterio che il Fisco deve adottare per valutare la proposta di trattamento dei crediti tributari che gli viene formulata nel concordato; inoltre gli articoli 180 e 182-bis della medesima legge attribuiscono al tribunale, in mancanza del voto del Fisco, il potere di approvare tale proposta ove sia, appunto, conveniente (e al tempo stesso, com’è noto, il voto dell’amministrazione finanziaria, o degli enti previdenziali, sia determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze richieste dall’art. 177 della legge fallimentare).
La proposta di trattamento dei debiti tributari può essere conveniente per il Fisco anche se ne prevede un soddisfacimento inferiore a quello che ipoteticamente, qualora il debitore potesse proseguire l’attività, all’Erario spetterebbe in base all’applicazione della regola della priorità assoluta. Ciò perché, se, a causa dell’adozione di tale regola, le risorse disponibili fossero impiegate per pagare l’Erario e non ne residuassero per soddisfare i creditori di rango inferiore, il concordato non sarebbe attuabile: conseguentemente il debitore verrebbe dichiarato fallito, l’attività non continuerebbe, i flussi non verrebbero pertanto prodotti e l’Erario riceverebbe un soddisfacimento peggiore di quello che potrebbe essergli alternativamente destinato mediante una proposta di trattamento dei crediti tributari che, derogando alla regola della priorità assoluta, escludesse il pagamento integrale dei crediti tributari e destinasse parte delle risorse al soddisfacimento dei crediti di rango inferiore.
Inoltre, la prima parte del secondo periodo dell’art. 182-ter della legge fallimentare stabilisce il cosiddetto “divieto di trattamento deteriore” dei crediti tributari (e contributivi), disponendo testualmente quanto segue: “Se il credito tributario o contributivo è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori o meno vantaggiosi rispetto a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica e interessi economici omogenei a quelli delle agenzie e degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie”.
Tale disposizione risulterebbe priva di un senso logico nel caso in cui la regola della priorità assoluta dovesse considerarsi applicabile anche ai crediti tributari (e contributivi) privilegiati, atteso che detta regola è di per sé già sufficiente a garantire a tali crediti un trattamento non deteriore rispetto a quelli di rango successivo, discendendo dalla sua piana applicazione che questi non possono essere pagati senza che quelli precedenti (cioè quelli tributari e contributivi) siano stati integralmente soddisfatti.
Pertanto, attraverso la suddetta disposizione l’ordinamento considera evidentemente compatibile la soddisfazione parziale dei crediti tributari (e contributivi) privilegiati anche in presenza di un patrimonio (futuro) capiente, purché essi non siano trattati in maniera deteriore rispetto a quelli di rango inferiore e ricorra l’essenziale condizione della convenienza del trattamento dei crediti di cui trattasi rispetto a quello che essi riceverebbero per effetto della liquidazione.
Nell’ambito di una disciplina governata dalla regola della priorità assoluta, la disposizione contenuta nel primo comma dell’art. 182-ter afferma dunque la (diversa) regola della priorità relativa con riferimento ai crediti tributari (e contributivi), in deroga a quanto previsto per la generalità dei crediti privilegiati dall’art. 160, comma 2, e comunque indipendentemente da quanto stabilito per gli altri crediti [5].
Questa conclusione pare del resto confermata dall’Agenzia delle Entrate, la quale, con la circolare n. 34 del 29 dicembre 2020 (paragrafo 3.5), dopo averne sostenuto la natura endogena dei flussi gestionali (al pari del Tribunale di Milano), ha espressamente affermato che “la distribuzione delle somme provenienti dai flussi di cassa prodotti dalla continuità aziendale dovrà avvenire in modo tale da assicurare in ogni caso un trattamento non deteriore alla pretesa tributaria rispetto ai creditori concorrenti, secondo le prescrizioni dell’art. 182-ter, primo comma, LF, e, nel contempo, il miglior soddisfacimento rispetto all’alternativa liquidatoria”. Questa affermazione equivale a riconoscere l’operatività della regola della priorità relativa con riguardo al trattamento dei crediti tributari privilegiati, che (una volta appuratane la convenienza rispetto all’alternativa liquidatoria) deve risultare rispettoso unicamente del divieto di trattamento deteriore: di essi è dunque da ritenersi ammessa la soddisfazione parziale anche in presenza del pagamento di crediti di rango inferiore, purché essa non risulti meno vantaggiosa.
In altri termini, è legittimo proporre al Fisco un soddisfacimento meno elevato, purché esso sia però più conveniente di quello discendente dalla liquidazione dell’impresa debitrice e venga rispettato il divieto di trattamento deteriore dei crediti tributari; in tal modo le minori somme destinate all’Erario possono essere utilizzate per soddisfare anche i creditori di rango inferiore, rendendo attuabile il concordato e assicurando all’Amministrazione finanziaria il miglior trattamento possibile. Del resto, la convenienza della proposta di transazione fiscale deve essere valutata dall’Agenzia delle Entrate, non tanto con riguardo a una prospettazione teorica, qual è quella che assume il pagamento dei crediti tributari mediante utilizzo dei flussi sulla base della regola della priorità assoluta senza curarsi della effettiva possibilità di produzione di quei flussi in virtù del concordato in continuità, ma sulla base di una situazione reale, qual è quella che invece considera a quali condizioni il concordato può essere attuato e l’attività può proseguire consentendo la produzione dei flussi gestionali, vale a dire quella situazione determinata tenendo conto della necessità di soddisfare, seppur in misura diversa, tutti i creditori, anche a discapito di coloro che subiscono un sacrificio, al fine ultimo di permettere a questi ultimi il conseguimento del miglior risultato possibile. Si pensi, ad esempio, a un’impresa che abbia i) debiti prededucibili e privilegiati anteriori ai debiti fiscali pari a 20, ii) debiti fiscali per 40 e iii) debiti chirografari per 80, a fronte di un attivo di 20 e di flussi gestionali futuri pari a 40. Applicando la regola della priorità assoluta, all’Erario dovrebbe essere assegnato un importo di 40, pari a quello dei flussi; tuttavia, in questo caso, nessuna risorsa potrebbe essere destinata ai creditori chirografari e ciò impedirebbe l’attuazione del concordato, con la conseguenza che il Fisco non riceverebbe in realtà alcun pagamento. Se, invece, solo una parte dei flussi viene attribuita all’Erario, ad esempio 30, il residuo importo di tali flussi, pari a 10, può essere ripartito a favore dei creditori chirografari, rendendo attuabile il concordato e consentendo al Fisco di percepire un pagamento pari a 30, che rispetta i presupposti della convenienza e del divieto di trattamento deteriore previsti dall’art. 182-ter della legge fallimentare.
Questa lettura delle norme concilia quindi la regola della priorità assoluta con il principio di convenienza che costituisce il fulcro dell’art. 182-ter, evitando il contrasto fra norme e garantendo il miglior soddisfacimento possibile dei crediti fiscali. Tuttavia, a ben vedere, il citato art. 182-ter, più che come deroga alla regola della priorità assoluta, dovrebbe essere considerato espressione del più generale principio secondo cui tale regola trova applicazione solo ai fini della ripartizione fra i creditori del patrimonio esistente alla data di apertura della procedura e non anche di quello formatosi successivamente.