di Giulio Andreani e Angelo Tubelli

Con l’ordinanza n. 8504/2021 le Sezioni Unite della cassazione hanno individuato nel giudice ordinario la giurisdizione competente a decidere in ordine all’impugnazione del diniego dell’Agenzia delle entrate alla proposta di transazione fiscale, anche se presentata prima del 4 dicembre 2020, data di entrata in vigore della L. n. 159/2020, che ha introdotto nella legge fallimentare la cosiddetta regola del “cram down fiscale”; ciò in virtù della finalità prettamente concorsuale di detto istituto, che assume – nella valutazione della questione – una rilevanza preponderante rispetto all’oggetto cui si riferisce. Con la medesima pronuncia è stato altresì chiarito che, in presenza di crediti tributari contestati, la relativa giurisdizione resta comunque attribuita al giudice tributario, dovendo il giudice ordinario limitarsi a disporre, ex art. 90 del D.P.R. n. 602/1973, l’accantonamento dei crediti in controversia insorgenda ovvero insorta.

1. Premessa

Con l’ordinanza 25 marzo 2021, n. 8504, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che è impugnabile dinanzi al tribunale fallimentare il rigetto, da parte dell’Agenzia delle entrate, della proposta di transazione fiscale presentata anche prima del 4 dicembre 2020, ovverosia prima della entrata in vigore della legge 27 novembre 2020, n. 159 [1] con cui è stato espressamente attribuito al Tribunale il potere di omologare detta proposta “anche in mancanza di voto” (nel concordato preventivo), ovvero “anche in mancanza di adesione” (nell’accordo di ristrutturazione dei debiti), dell’Amministrazione finanziaria e degli Enti previdenziali.
Sebbene l’ordinanza n. 8504/2021 si riferisca ai giudizi promossi prima del 4 dicembre 2020, da essa è possibile trarre principi utili per dirimere alcune delicate questioni interpretative circa la transazione fiscale e contributiva disciplinata dall’art. 182-ter l.fall.

2. Il percorso argomentativo seguito dalle Sezioni Unite

La sentenza indicata in epigrafe si riferisce alla proposta di transazione fiscale presentata il 27 luglio 2018 da una società nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.fall., rigettata dagli uffici dell’Agenzia delle entrate, con successiva impugnazione del suddetto diniego avanti alla Commissione provinciale tributaria territorialmente competente. Contro tale iniziativa giudiziale l’Agenzia delle entrate aveva proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, affinché venisse affermata la competenza del tribunale fallimentare.
Prima di passare ad esaminare la relativa decisione assunta dai giudici aditi, occorre rammentare come sulla questione della giurisdizione competente si fossero per un lungo periodo confrontate due opposte scuole di pensiero, una che escludeva in radice il diritto di impugnare il rigetto della proposta transattiva (cui ha aderito l’Agenzia delle entrate nell’ambito della circolare 6 maggio 2015, n. 19/E), l’altra che invece lo ammetteva [2]. Coloro che sostenevano la possibilità di impugnare il rigetto della proposta transattiva risultavano a propria volta sostanzialmente divisi tra chi riferiva la competenza giurisdizionale al giudice amministrativo e chi al giudice tributario; solo in un secondo momento cominciò a profilarsi una “terza via” secondo cui il giudice competente avrebbe dovuto essere quello ordinario, poiché le relative valutazioni di merito, sulla fattibilità del piano e sulla convenienza economica della proposta, si riflettono sull’intera procedura concordataria, nel cui ambito la transazione fiscale si innesta (o, nell’assetto normativo previgente, si innestava se azionata) quale subprocedimento endoconcorsuale [3].
In giurisprudenza si è andata invece affermando la tesi che individuava il giudice competente nel giudice tributario (ovvero nel giudice del lavoro con riguardo alla transazione contributiva), sostenuta da alcuni giudici di merito [4] nonché dal Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28 settembre 2016, n. 4021, e soprattutto, relativamente alla cosiddetta “transazione su ruoli” disciplinata dall’art. 3, comma 3, del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, sentenza 14 dicembre 2016, n. 25632 [5].
Con la citata ordinanza n. 8504/2021 le Sezioni Unite da un lato hanno ammesso la sussistenza del diritto di impugnazione del rigetto della proposta transattiva in capo al contribuente (in quanto titolare di una posizione degna di tutela) e dall’altro, disattendendo la richiesta del Procuratore Generale (che aveva concluso per la giurisdizione del giudice tributario), hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario.
Le argomentazioni, che hanno condotto i giudici di nomofilachia a formulare il suddetto principio di diritto, sono così sintetizzabili:
1) con il decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, il legislatore ha appositamente collocato l’istituto della transazione fiscale all’interno della disciplina delle procedure concorsuali, a differenza della scelta operata con la primigenia forma di transazione fiscale, rappresentata dalla citata “transazione sui ruoli” cui poteva accedere il contribuente divenuto insolvente, che costituì una previsione normativa “il cui modulo attuativo aveva quale presupposto sostanziale l’accertamento della sua convenienza rispetto alla riscossione coattiva” e la cui applicazione era “confinata nell’ambito dell’esecuzione esattoriale e quindi nell’ambito tributario, senza alcun riferimento diretto alle coeve esecuzioni concorsuali ordinarie”;
2) l’art. 182-ter, “con più radicale deroga al detto principio di indisponibilità dei crediti tributari, ha previsto, per la prima volta nel nostro ordinamento, la possibilità di un accordo tra Ente impositore e contribuente insolvente sul pagamento parziale non satisfattivo ovvero sul dilazionamento del pagamento dei debiti tributari di quest’ultimo, ancorché non ancora cristallizzati da iscrizioni a ruolo a titolo definitivo ed anzi nemmeno ancora iscritti a ruolo, pur con alcune (…) condizioni inerenti la graduazione concorsuale” e subordinatamente all’allegazione della relazione di un professionista indipendente attestante la convenienza della proposta transattiva (“essenzialmente intesa come miglior soddisfacimento delle pretese fiscali rispetto alle altre alternative”) [6];
3) il ricorso a questo “speciale modulo di attuazione consensuale (in senso lato) dei tributi”, dapprima facoltativo, è stato reso obbligatorio con l’art. 1, comma 81, della legge 11 dicembre 2016, n. 232, che al contempo ha soppresso la previsione che attribuiva al suo perfezionamento l’effetto del consolidamento (“cristallizzazione”) dei debiti tributari e quello della cessazione della materia del contendere nelle liti aventi ad oggetto i tributi oggetto della transazione fiscale;
4) l’obbligatorietà del ricorso all’istituto della transazione fiscale, nell’ambito della “procedura-madre” dell’accordo di ristrutturazione dei debiti o del concordato preventivo, ne ha determinato il carattere di sub-procedimento avente a oggetto il trattamento dei crediti tributari, connotato da “esclusività”, nel senso che il soddisfacimento di tali crediti può essere regolamentato (con la sola eccezione del caso in cui vengano pagati integralmente e senza dilazione) esclusivamente attraverso la transazione fiscale prevista dall’art. 182-ter l.fall. [7];
5) tale carattere esclusivo rivela la prevalenza, nella transazione fiscale, della ratio concorsuale su quella tributaria, almeno in un’ottica funzionale, essendo essa finalizzata alla definizione concordataria o di ristrutturazione debitoria della crisi d’impresa secondo le regole procedurali dettate dalla legge fallimentare;
6) la disciplina vigente prima delle modifiche introdotte sul punto, dapprima con il decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (“Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” o “CCII”), e poi con la L. n. 159/2020 (che ne ha anticipato l’attuazione), non conteneva alcuna espressa indicazione in ordine alla mancata adesione alla proposta di transazione fiscale ed alla conseguente giurisdizione compulsabile, a differenza delle nuove versioni degli artt. 180 e 182-bis l.fall. e del CCII contengono una previsione assai precisa e pregnante, individuando in quello fallimentare il giudice competente per pronunciarsi su tale mancata adesione;
7) la scelta del legislatore, di attribuire espressamente alla competenza giurisdizionale del tribunale fallimentare la questione della mancata adesione alla proposta di transazione da parte dell’agenzia fiscale, dimostra con ulteriore chiarezza come l’istituto de quo (a differenza della primigenia “transazione sui ruoli”) sia da collocare nel campo del diritto fallimentare, piuttosto che nell’ambito delle procedure di attuazione dei tributi, ancorché ne siano evidenti i riflessi di diritto tributario;
8) poiché la configurazione dell’istituto è “transitata sostanzialmente immutata nelle disposizioni del CCII e nella novella anticipatrice del dicembre 2020, (…) la seconda può essere utilmente impiegata come elemento di valutazione ermeneutica della prima” per dirimere la questione della giurisdizione con riferimento ai giudizi instaurati ante 4 dicembre 2020 [8], in considerazione della unificante ratio legis, sancita dal comune tratto della obbligatorietà della proposta transattiva, da ricercare “non nell’interesse fiscale che è la ‘causa prima’ dell’obbligazione tributaria (…), bensì nell’interesse concorsuale che è invece la ‘ragione fondativa’ delle procedure concordatarie ed assimilabili”, sempre più mirate alla conservazione dell’attività d’impresa e del relativo complesso aziendale;
9) poiché la transazione fiscale rappresenta lo strumento di raccordo per il bilanciamento dell’interesse fiscale con l’interesse concorsuale, così come la discrezionalità riconosciuta all’amministrazione finanziaria nell’accoglierla o rigettarla è bilanciata dal sindacato giudiziale sul diniego di accettazione della proposta di transazione, assegnato al tribunale fallimentare, deve concludersi che, alla luce della sostanziale coincidenza dei presupposti e delle modalità del trattamento dei crediti tributari dettate dalla nuova e dalla disciplina previgente alla L. n. 159/2020, anche con riferimento a quest’ultima il medesimo sindacato era comunque affidato allo stesso tribunale fallimentare nell’ambito delle sue competenze “omologatorie” generali, prevalendo il profilo della concorsualità dell’istituto su quello del rapporto tributario.
Pertanto, mentre la natura tributaria della “transazione sui ruoli” aveva assunto un ruolo decisivo nell’attribuzione al giudice tributario della competenza a decidere sul giudizio di impugnazione, il fatto che la transazione fiscale abbia ad oggetto tributi rileva unicamente con riguardo al rilascio delle certificazioni dei crediti tributari cui è tenuta l’amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 182-ter, comma 2 [9].
Le Sezioni Unite hanno infatti ritenuto di dover dare preminenza alla finalità concorsuale della transazione fiscale quale istituto della legge fallimentare, in quanto nella definizione del rapporto tra il debitore e l’ente impositore il ruolo principale ed essenziale è ricoperto dalle regole e dai principi di detto ordinamento (e non di quello tributario) [10]; in questa ottica l’oggetto della transazione fiscale (rappresentato dalle obbligazioni tributarie) assume un rilievo del tutto secondario o, comunque, non sufficiente per ricondurre la relativa controversia nella sfera di applicazione dell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992.
Allo stesso modo è stata giudicata altresì irrilevante l’analogia tra l’atto di diniego di agevolazione ovvero di rigetto della domanda di definizione agevolata di un rapporto tributario (quali atti rientranti nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992) e il dissenso opposto dall’ente impositore alla proposta d transazione fiscale, giacché, secondo l’indirizzo consolidato della Corte di cassazione, l’elencazione ivi contenuta concerne la diversa questione della proponibilità della domanda dinanzi al giudice tributario [11].
In questa prospettiva il coordinamento tra la presenza di contestazioni (insorgende o pendenti) sui crediti tributari e le esigenze della procedura concorsuale in corso si palesa regolato dalla norma speciale all’uopo contenuta nell’art. 90 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, che stabilisce quanto segue: “1. Se il debitore è ammesso al concordato preventivo o all’amministrazione controllata, il concessionario compie, sulla base del ruolo, ogni attività necessaria ai fini dell’inserimento del credito da esso portato nell’elenco dei crediti della procedura. 2. Se sulle somme iscritte a ruolo sorgono contestazioni, il credito è comunque inserito in via provvisoria nell’elenco ai fini previsti del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 176, comma 1 e art. 181, comma 3, primo periodo”.
Ne discende che i profili eminentemente concorsuali del trattamento dei debiti tributari hanno come proprio giudice il tribunale fallimentare mentre i profili tributari restano affidati alla giurisdizione speciale configurata dal D.Lgs. n. 546/1992, poiché, per effetto della disposizione testé citata, in presenza di crediti tributari oggetto di contestazione (potenziale o pendente) l’accantonamento delle relative somme è da considerarsi obbligatorio, restando il sindacato del giudice ordinario confinato unicamente alle modalità di effettuazione dello stesso, come già sancito dalla Corte di cassazione con la sentenza 13 giugno 2018, n. 15414.
3. Il perimetro di applicazione del cram down fiscale
Poiché la questione di diritto riferita alla disciplina previgente all’entrata in vigore della L. n. 159/2020 è stata affrontata e risolta dalle Sezioni Unite utilizzando quale criterio ermeneutico proprio le disposizioni introdotte nell’ordinamento delle procedure concorsuali da tale legge (e dal CCII), le argomentazioni e le conclusioni in essa contenute spiegano la loro valenza anche su tale disciplina e, segnatamente, per dirimere il contrasto che si sta formando, in giurisprudenza e in dottrina, sull’interpretazione del disposto degli articoli 180 e 182-bis della legge fallimentare in relazione al perimetro di applicazione del cosiddetto “cram down fiscale”. Si tratta, com’è noto, del contrasto circa il potere attribuito da tali norme al Tribunale di omologare la transazione fiscale e contributiva “anche in mancanza di voto” (nel concordato preventivo), ovvero “anche in mancanza di adesione” (nell’accordo di ristrutturazione dei debiti), dell’Amministrazione finanziaria e degli Enti previdenziali alla proposta di transazione loro formulata.
In sintesi, secondo una prima tesi (definita “restrittiva”), il Tribunale disporrebbe del potere-dovere di intervenire in via sostitutiva solo allorquando non sussista alcuna espressione di voto o di adesione; un secondo indirizzo (“estensivo”) considera, invece, anche il voto negativo o il rigetto dell’adesione da parte dell’erario quale presupposto della omologazione, da parte del Tribunale, della proposta del concordato o dell’accordo; secondo una terza ipotesi ricostruttiva (“intermedia”), infine, il potere sostitutivo di omologa del Tribunale ricorrerebbe sia in caso di mancata pronuncia sia in caso di rigetto della proposta nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, ma non anche nell’ambito del concordato.
Uno dei motivi che, ad avviso di chi scrive, militano a favore della tesi estensiva risiede nella volontà del legislatore di assicurare alle imprese debitrici una reale tutela giurisdizionale contro i provvedimenti di rigetto delle proposte di transazione, emessi dall’Amministrazione finanziaria e dagli enti previdenziali e assistenziali in contrasto con i principi affermati dall’art. 182-ter l.fall. [12]; tutela che sino all’introduzione di tali norme, pur essendo teoricamente sussistente, è risultata di fatto inattuabile. Infatti, come espressamente confermato nell’ordinanza n.8504/2021, era ed è da ritenersi che un rimedio giurisdizionale all’illegittimo rigetto della proposta di transazione debba sussistere; dal che discende il diritto del contribuente di impugnare dinanzi al giudice quei provvedimenti che siano adottati in violazione dei principi posti dall’art. 182-ter o siano fondati su valutazioni errate, poiché il rigetto di una proposta di transazione conforme alle previsioni di tale articolo, che sia conveniente per l’Erario e per di più condizioni l’intero procedimento concorsuale, non può rimanere priva di rimedio, tanto nel concordato quanto nell’accordo di ristrutturazione dei debiti.
Sino all’entrata in vigore della novella legislativa, l’annoso dibattito – come detto – aveva alfine condotto a individuare il giudice competente nel giudice tributario (e, relativamente alla transazione contributiva, nel giudice del lavoro). Tuttavia si è trattato solo di un rimedio teorico, perché i tempi della definizione di tali giudizi non sono compatibili con quelli del concordato preventivo (e neanche con quelli dell’accordo di cui all’art. 182-bis): infatti, il giudice tributario normalmente si pronuncia, quanto al primo grado di giudizio, dopo vari mesi (il più delle volte dopo circa un anno) e, in via definitiva, dopo diversi anni, e non è quindi atto a evitare la dichiarazione di inammissibilità della proposta di concordato da parte del Tribunale conseguente al mancato raggiungimento delle maggioranze di legge, la quale deve essere pronunciata in tempi assai più rapidi; né, visto il contesto, si può concretamente immaginare una sospensione del procedimento di approvazione del concordato (o degli effetti dell’accordo) per un periodo così ampio, in attesa della decisione del giudice tributario.
È quindi del tutto ragionevole ritenere che il legislatore si sia fatto carico di introdurre nel CCII – e, con la L. n. 159/2020, nella legge fallimentare delle disposizioni che forniscono una reale tutela giurisdizionale contro provvedimenti della Pubblica amministrazione adottati in violazione dell’art.182ter, attribuendo al Tribunale fallimentare (come aveva suggerito lo stesso CNDCEC) il potere di giudicare la legittimità dei provvedimenti di rigetto, approvando nella sostanza le proposte di transazione rigettate illegittimamente, ove l’approvazione delle stesse sia “determinante” o “decisi-va”. Tali disposizioni sono, ad avviso di chi scrive, quelle inserite negli artt. 180 e 182bis l.fall. dalla L. n. 159/2020: svilirebbe pertanto la loro portata e contrasterebbe con il contesto da cui esse hanno tratto origine un’interpretazione che ne delimitasse il campo di applicazione al solo caso della mancata espressione del voto o di una pronuncia sulla proposta. In questa prospettiva si rivelerebbe ora incoerente e asistematico attribuire al legislatore l’intenzione di istituire una sorta di “doppio binario”, ovverosia di conferire al Tribunale il potere di decidere in ordine alla transazione fiscale in caso di mancata espressione del diritto di voto da parte del Fisco, da un lato, e, dall’altro, di continuare a rimettere al giudice tributario il potere di decidere sulla stessa in caso di manifestazione di voto negativo, con un conseguente e discriminatorio allungamento dei tempi di esecuzione della procedura in quest’ultimo caso.
La citata ordinanza, con cui la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata sul ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione proposto dall’agenzia delle Entrate, in merito alla causa originata dal rigetto della domanda di transazione fiscale che la società istante aveva impugnato dinanzi alla Commissione Tributaria, ci pare rafforzi il motivo testé esposto, (ri)unificando il sistema.
Dalle argomentazioni utilizzate dalle Sezioni Unite, infatti, discende che la tutela giurisdizionale compete sempre all’impresa debitrice, perché il giudice deve bilanciare la discrezionalità degli Enti impositori, cui va infatti attribuita natura “vincolata”: non solo quando tale Enti non si pronunciano ma, e con non minor necessità, anche quando si pronunciano, posto che – proprio in questo caso – è necessario sia verificare la conformità alla legge della loro pronuncia e se il provvedimento da essi emesso esprime correttamente l’interesse fiscale, sia bilanciare l’interesse fiscale da essi espresso (ove sia manifestato correttamente) con l’interesse concorsuale, che è prevalente. Come si è evidenziato nel passaggio della ordinanza n. 8504/2021 richiamato al punto del 9) del precedente paragrafo, il compito di eseguire tale verifica e operare tale bilanciamento di interessi è stato affidato dal legislatore al tribunale fallimentare, quale organo terzo deputato a controllare il corretto esercizio della “discrezionalità vincolata” da parte degli uffici dell’Agenzia delle entrate, che sono sì chiamati a decidere sulla condivisione o sul rigetto della proposta transattiva, ma non a loro completa discrezione, bensì in stretta applicazione del criterio della convenienza della stessa rispetto all’ipotesi alternativa della liquidazione giudiziale.
La tesi “restrittiva”, secondo cui il rigetto espresso potrebbe essere impugnato solo dal giudice tributario e il Tribunale non avrebbe – a seguito del diniego – il potere di disporre la omologazione “coattiva” del concordato o dell’accordo, oltre a creare ingiustificati trattamenti differenziati in merito alla giurisdizione – impedirebbe invece tanto la verifica della conformità del rigetto all’interesse fiscale e alla legge, quanto il bilanciamento tra l’interesse fiscale e quello concorsuale. Ci sembrano ulteriori ottimi motivi per disattenderla.
Anzi, posto che la fattispecie oggetto di esame da parte delle Sezioni Unite aveva ad oggetto proprio il rigetto espresso della proposta transattiva presentata prima del 4 dicembre 2020, lascia intendere che il principio accolto nell’ordinanza n. 8504/2021 circa il sindacato giudiziale del tribunale fallimentare su tale atto di diniego debba valere anche con riguardo al rigetto espresso della proposta transattiva presentata a partire da tale data [13]. Si è infatti dapprima riferito più volte che la questione controversa è stata risolta dalla Corte di cassazione utilizzando, quale criterio ermeneutico, il principio generale desumibile dalle norme sopravvenute, sicché sarebbe del tutto inverosimile (oltre che errato) presumere una diversa soluzione interpretativa con riferimento all’assetto vigente.

4. Il cram down fiscale in presenza di crediti tributari contestati

In linea generale, l’affermazione secondo cui, in presenza di crediti tributari contestati, il giudizio incardinato o ancora da incardinare resta sotto la giurisdizione del giudice tributario, senza possibilità di devolvere la questione al giudice ordinario, è assolutamente da condivisibile, poiché il potere di sindacato attribuito a quest’ultimo dal legislatore per l’interesse concorsuale sopra evidenziato non può estendersi fino al giudizio sulla fondatezza o meno della pretesa tributaria/contributiva e sui motivi di impugnazione della stessa da parte del contribuente, ma deve necessariamente essere limitato alla valutazione sulla convenienza della proposta transattiva rispetto all’alternativa liquidatoria.
Con l’ordinanza n. 8504/2021 le Sezioni Unite, tuttavia, hanno altresì sostenuto che il coordinamento tra la presenza di contestazioni (insorgende o pendenti) sui crediti tributari e le esigenze della procedura concorsuale in corso sarebbe in toto regolato dalla norma speciale contenuta nell’art. 90 del D.P.R. n. 602/1973. Di conseguenza, qualora la proposta di transazione fiscale contenga una proposta di definizione di contenziosi tributari pendenti da parte del contribuente, in assenza di risposta ovvero in presenza di diniego espresso da parte dell’ente pubblico creditore, il cram down fiscale previsto dagli artt. 180 e 182-bis l.fall. non potrebbe dunque operare o, meglio, secondo l’ordinanza de qua potrebbe operare previa disposizione dell’accantonamento di una somma corrispondente all’ammontare dei crediti contestati.
Questo secondo aspetto dell’ordinanza in commento merita, però, qualche ulteriore precisazione alla luce del trattamento in generale dei crediti contestati nella procedura concordataria.

4.1 La funzione di cauzione dell’accantonamento delle somme oggetto di contestazione

Nel titolo III della legge fallimentare, dedicato alla disciplina del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, non si rinvengono disposizioni relative al trattamento dei crediti contestati nel piano concordatario, fatto salvo quanto stabilito dagli artt. 176 e 180 l.fall.
La prima disposizione stabilisce che, in presenza di crediti contestati (in tutto o in parte), anche qualora la proposta di concordato non ne preveda l’inserimento nell’elenco dei creditori ai fini del voto [14], il giudice delegato può disporne l’inserimento in via provvisoria [15] al fine del calcolo delle maggioranze, senza che ciò pregiudichi le pronunce definitive sulla sussistenza dei crediti stessi. Infatti, come sancito dalla Cassazione nella citata sentenza n. 15414/2018, in base alla disciplina generale il creditore, che voglia far valere le proprie pretese per importi diversi da quelli (in tutto o in parte) riconosciuti dal debitore, può far accertare in via ordinaria nei confronti di quest’ultimo il proprio credito e il privilegio che lo assiste, indipendentemente dall’ammissione o meno al voto con riguardo al credito oggetto di contestazione.
Il giudizio di accertamento di un credito tributario contestato, tuttavia, richiede tempi di gran lunga più ampi (tenuto conto anche delle inevitabili fasi di impugnazione) di quelli corrispondenti alla procedura di concordato preventivo, sicché, nella maggior parte dei casi, il concordato è destinato a essere omologato senza che, a tale data di omologa, sia intervenuta una sentenza passata in giudicato che statuisca in modo incontrovertibile l’entità, la natura, e il grado di privilegio del credito oggetto di contestazione.
Il legislatore ha dovuto tenere conto del fatto che il rischio economico, che il debitore resti soccombente nel giudizio, non può essere per “prudenza” trasformato in un dovere di pagamento dal giudice del concordato ma, al contempo, che il debitore non dovrebbe “impiegare o destinare in modo imprudente somme della debitrice in concordato sino a che il predetto accertamento non abbia a consolidarsi (anche ove raggiunto in via convenzionale o transattiva)” [16]. Con l’art. 180, comma 6, l. fall. è dunque previsto quanto segue: “Le somme spettanti ai creditori contestati, condizionali o irreperibili sono depositate nei modi stabiliti dal tribunale, che fissa altresì le condizioni e le modalità per lo svincolo”.
L’accantonamento di cui all’art. 180 l.fall. viene così ad assumere la funzione di “cauzione” rapportata all’ammontare oggetto di deposito. Infatti, una volta determinato l’importo da accantonare, lo stesso sarà oggetto di liberazione qualora si giunga ad una pronuncia definitiva in relazione ai contenziosi pendenti.
Per quanto concerne i criteri da seguire ordinariamente (ai sensi dell’art. 180, comma 6) nella quantificazione degli accantonamenti da disporre in sede di omologazione, con la più volte citata sentenza n. 15414/2018 la Cassazione ha testualmente affermato quanto segue: “il tribunale, nell’omologare il concordato, ha il potere di disporre e di quantificare gli accantonamenti, ma anche di non prescriverli, ove reputi, all’esito di una valutazione di natura incidentale, che il credito o i crediti contestati non siano esistenti: e che, ove si reputasse, al contrario, la necessità di disporre sempre e comunque l’accantonamento, le conseguenze sarebbero inaccettabili, poiché qualunque pretesa di un qualsivoglia soggetto, anche la più sconclusionata, potrebbe paralizzare l’omologazione di un concordato. La teorica latenza di cause di prelazione o di crediti, tutt’altro che certi, ma anzi condizionati alla emissione di una sentenza di accertamento definitiva, non obbliga quindi – di regola – gli organi della procedura ad accantonare risorse nella previsione di un eventuale riconoscimento del credito disconosciuto” [17].

4.2 La norma speciale sancita dall’art. 90 del D.P.R. n. 602/1973

Con la medesima pronuncia i giudici di legittimità hanno tuttavia precisato che, se quanto sopra riferito “è ordinariamente vero, non tiene però conto della norma speciale sopra richiamata e della giurisdizione tributaria, cui sono devolute le relative controversie”, sicché “in presenza di crediti tributari oggetto di contestazione, per effetto della norma speciale di cui all’articolo 90 D.P.R. n. 602 del 1973 il suindicato accantonamento è obbligatorio essendo rimesso al Tribunale esclusivamente il potere di determinarne le relative modalità”.
L’ambito applicativo dell’art. 90 del D.P.R. n. 602/1973 pare espressamente limitato alle “somme iscritte a ruolo” [18], ovverosia alle somme per le quali si è formato un titolo esecutivo con cui l’Amministrazione Finanziaria può pretenderne dal contribuente il pagamento ed eseguire azioni finalizzate alla riscossione delle stesse, compresi gli atti esecutivi. A partire dagli atti notificati dal 1° ottobre 2011, il titolo esecutivo ai fini della riscossione è costituito dall’avviso di accertamento, il quale, acquisisce i contenuti tipici del precetto una volta decorsi i termini, nello stesso indicati, entro i quali il pagamento, intimato con lo stesso avviso, deve essere adempiuto. Ne discende che l’ambito applicativo dell’art. 90 del D.P.R. n. 602/1973” è da intendersi esteso anche agli avvisi di accertamento c.d. esecutivi per effetto della previsione recata dall’art. 29, comma 1, lett. g) del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, a norma del quale ai fini della procedura di riscossione “i riferimenti contenuti in norme vigenti al ruolo e alla cartella di pagamento si intendono effettuati agli atti indicati nella lettera a)”, vale a dire agli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle entrate ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dell’imposta sul valore aggiunto, nonché ai connessi provvedimenti di irrogazione delle sanzioni.
L’obbligo di accantonamento imposto dall’art. 90 del D.P.R. n. 602/1973 non è perciò riferibile alle pretese tributarie risultanti da atti privi del carattere di esecutività e conseguentemente tale disposizione non comporta alcun obbligo di “accantonamento dei crediti tributari in controversia insorgenda”, né, trattandosi di una norma speciale, appare legittima un’interpretazione estensiva della stessa [19] tale da applicarla ex se a qualsiasi pretesa dell’Amministrazione finanziaria.
Occorre inoltre evidenziare che il legislatore, in considerazione della natura amministrativa degli atti di cui trattasi e del presumibile fumus di “fondatezza” che li caratterizza, ha sì previsto l’obbligo di accantonamento per i relativi crediti in deroga a quanto previsto in generale dall’art. 180, comma 6, l.fall., limitatamente alla parte di essi che l’Agenzia delle entrate può richiedere in pagamento e per cui può agire (in caso di inadempimento) ai fini della riscossione. In proposito il citato art. 29 del D.L. n. 78/2010 stabilisce che gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate devono contenere anche l’intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all’obbligo di pagamento degli importi negli stessi indicati, ovvero, in caso di tempestiva proposizione del ricorso ed a titolo provvisorio, degli importi stabiliti dall’art. 15 del D.P.R. n. 602/1973, a norma del quale gli importi di cui trattasi “sono iscritti a titolo provvisorio nei ruoli, dopo la notifica dell’atto di accertamento, per un terzo degli ammontari corrispondenti agli imponibili o ai maggiori imponibili accertati”. Ne consegue che, in caso di impugnazione, la riconducibilità degli avvisi di accertamento esecutivi nell’ambito di applicazione dell’art. 90 del D.P.R. n. 600/1973 deve intendersi circoscritta (così come per le somme iscritte a ruolo) a un terzo delle imposte e degli interessi corrispondenti agli imponibili o ai maggiori imponibili accertati.
Per altro verso, con la suddetta pronuncia n. 15414/2018 i giudici di legittimità non hanno considerato l’ipotesi in cui l’iscrizione a ruolo avvenuta in pendenza di giudizio venga successivamente “travolta”, venendo l’atto impositivo annullato dal giudice tributario di primo e/o di secondo grado. Infatti, se interviene una sentenza favorevole al contribuente che annulla, seppur non definitivamente (perché non è ancora definitiva) gli avvisi di accertamento impugnati, il ruolo viene “rimosso”, con la conseguenza che l’ufficio non ha più un titolo (valido) per pretendere il pagamento delle suddette somme. Questo principio è stato confermato da una pronuncia di merito [20] con la quale è stato statuito che, anche in caso di iscrizione a ruolo straordinario delle somme discendenti da un atto di accertamento (dunque per l’intero ammontare delle imposte e degli interessi), operata dall’ufficio in caso di fondato pericolo per la riscossione, se la Commissione Tributaria annulla, seppur in via non definitiva, il predetto atto di accertamento, l’ufficio non può vantare alcun credito nei confronti del contribuente, in quanto per effetto della sentenza è rimasto sprovvisto di un titolo che ne giustifichi l’esistenza; in tale ipotesi non deve perciò necessariamente essere costituito un fondo rischi in relazione al credito tributario in contestazione, né tantomeno imporsi l’accantonamento in sede di omologa di un corrispondente ammontare.
Dalla lettura combinata del citato art. 90 e delle disposizioni relative alla riscossione frazionata discende dunque che per le somme pretese in forza di atti di accertamento oggetto di impugnazione da parte del contribuente, che non sono iscritte a ruolo o non sono recate da atti impoesattivi (perché ad esse non è applicabile la disciplina sulla riscossione provvisoria o perché gli atti di accertamento dai quali tali somme discendono sono stati annullati, anche in via provvisoria, dal giudice tributario), non trova applicazione il citato art. 90, nel qual caso deve ritenersi che ritornano ad essere applicabili i principi previsti in via generale in relazione ai crediti contestati (di natura non tributaria). Di conseguenza, in questa ipotesi il Tribunale fallimentare, in sede di omologa, è chiamato a quantitributario – a seconda della maggiore o minore significatività dell’ammontare del credito tributario contestato – può condizionare il voto dei creditori e, in generale, le sorti della procedura, fino al rischio della successiva risoluzione per inadempimento ex art. 186 l.fall., qualora l’ammontare delle somme che siano definitivamente dovute si riveli abbondantemente superiore a quello accantonato.
In alternativa il Tribunale potrebbe decidere di attendere la definizione del processo tributario, ma il giudizio di accertamento di un credito tributario contestato (tenuto conto anche delle inevitabili fasi di impugnazione) richiede tempi di gran lunga più ampi di quelli corrispondenti alla procedura di concordato preventivo, normalmente a poco meno di un decennio, che comporterebbero un blocco delle fasi di riparto dell’attivo ai creditori che è incompatibile con l’interesse della maggioranza del ceto creditorio
Così stando le cose, in queste circostanze può diventare opportuno, e talora addirittura necessario, addivenire – prima o nel corso della procedura concorsuale – a una tempestiva definizione delle controversie in essere con l’Agenzia delle entrate mediante il ricorso agli ordinari istituti deflativi del contenzioso tributario ovvero tramite l’istituto della transazione fiscale, al solo fine di giungere a una determinazione certa del quantum debeatur e cristallizzare così il passivo, sottraendo la massa creditoria al rischio della soccombenza e ai non pronosticabili tempi di conclusione del processo tributario. Come evidenziato dal Tribunale di Milano, Sez. fallimentare, con il decreto di autorizzazione ex art. 161, comma 7, l.fall. emesso in data 18 marzo 2021, la definizione abbreviata della controversia avente ad oggetto un debito tributario di particolare entità può risultare conveniente per gli interessi del ceto creditorio anche qualora conduca a un ammontare superiore a quello che il debitore ritenga ragionevolmente, potendosi assimilare il quid pluris a un premio (incondizionato) corrisposto alla Agenzia delle Entrate, avente una funzione “assicurativa” rispetto all’alea dei giudizi.

 

[1] Si tratta della legge di conversione del decreto legge 7 ottobre 2020, n. 125.
[2] Le diverse posizioni assunte in dottrina sono state già illustrate in un precedente intervento su questa Rivista. Cfr. G. Andreani, A. Tubelli, “Come rendere più efficace la transazione fiscale”, in il fisco n. 13/2016, pag. 1256.

[3] Cfr. E. A. Apicella, “Diniego di transazione fiscale e giurisdizione amministrativa”, in www.judicium.it., 2012, pagg. 5 e 6. A favore di questa terza tesi si era schierato il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili nell’ambito del documento intitolato “Il contributo del CNDCEC alla riforma della crisi di impresa – profili tributari”, diffuso nel dicembre 2015 e destinato alla Commissione ministeriale istituita dal Ministro della Giustizia (c.d. Commissione Rordorf), ove (seppur in assenza di particolari spiegazioni) si proponeva l’inserimento nell’art. 182-ter di un ultimo comma dal seguente tenore letterale: “Il diniego alla transazione fiscale, e quindi anche il voto negativo alla medesima, è impugnabile di fronte al Tribunale fallimentare”. Invero anche l’Agenzia delle entrate, con la citata circolare n. 19/E/2015, aveva sostenuto che gli interessi del debitore avrebbero potuto trovare piena tutela attraverso i rimedi giurisdizionali previsti dalla legge fallimentare e in particolare che, “nel caso di mancato raggiungimento della maggioranza per l’approvazione del concordato e di successiva dichiarazione di fallimento, il debitore e gli altri creditori potranno tutelare la propria posizione mediante la proposizione del reclamo di cui all’articolo 18 della L.F.”; tuttavia un tale rimedio sarebbe stato esperibile solo dopo l’intervenuta dichiarazione di fallimento.

[4] Cfr. Commissione tributaria provinciale di Milano, sentenze 14 febbraio 2014, n. 1541, e 10 dicembre 2019, n. 5429; Commissione tributaria provinciale di Roma, sentenza 1° dicembre 2017, n. 26135; Commissione tributaria provinciale di Salerno, 26 febbraio 2020, n. 240.

[5] Il diniego alla proposta transattiva era usualmente ricondotto nell’alveo dell’art. 19, comma 1, lett. h), del D.Lgs. n. 546/1992, che prevede come impugnabili il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari. In merito si vedano R. Bogoni, E. Artuso, “Transazione fiscale: quando il diniego è impugnabile”, in Diritto e pratica tributaria n. 2/2019, pag. 745.

[6] Da questa affermazione è dato quindi desumere che, secondo le Sezioni Unite, il principio di indisponibilità del credito tributario è da considerarsi effettivamente immanente nel nostro ordinamento tributario ma può essere derogato da una norma legislativa di rango ordinario, quale è appunto l’art. 182-ter l. fall.

[7] Tuttavia, anche anteriormente alle modifiche recate dalla L. n. 232/2016, era stata evidenziata la natura di subprocedimento dell’istituto della transazione fiscale, in caso di sua attivazione facoltativa. Cfr. Cass., Sez. Unite, 27 dicembre 2016, n. 26988.

[8] Infatti, con la sentenza 24 giugno 2020, n. 12476, le Sezioni Unite della Corte di cassazione avevano escluso la diretta applicabilità (per scelta del legislatore) delle disposizioni del CCII alle procedure aperte anteriormente alla sua entrata in vigore, le quali potrebbero rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare “se (e solo se) si potesse configurare – nello specifico segmento – un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro”, ovverosia una volta stabilita la continuità “tra le disposizioni legislative direttamente applicabili quelle che lo saranno ai giudizi instaurati successivamente al 4 dicembre 2020”, come appurato in merito dagli stessi giudici. In assenza di una tale possibilità di comparazione e di disposizioni di diritto transitorio, infatti, una decisione fondata sullo ius superveniens non sarebbe risultata legittima in considerazione del principio della perpetuatio jurisdictionis sancito dall’art. 5 c.p.c., che, in deroga al principio generale “tempus regit actum”, stabilisce espressamente quanto segue: “La giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo” (sul coordinamento tra i due principi testé enunciati si veda Cass., Sez. I, sentenza 25 ottobre 2016, n. 21523).

[9] La certificazione dei crediti tributari risponde alla finalità di delineare il quadro complessivo dei rapporti obbligatori tra l’ente impositore e il contribuente che richiede il trattamento dei suoi debiti in sede concorsuale, nonché quella di evidenziare la presenza di eventuali profili di contrasto sia sull’an sia sul quantum debeatur, compresi quelli relativi a tributi oggetto di separato contenzioso pendente (le cui sorti non sono più legate al perfezionamento della transazione fiscale a seguito della L. n. 232/2016).

[1]0 Cfr. in tal senso L. Gambi, “Le sezioni unite si esprimono sul diniego erariale alla transazione fiscale”, in www.ilcaso.it, 4 aprile 2021, pag. 5. Come efficacemente osservato da M. Golisano, “La transazione fiscale fra giurisdizione e ‘merito’. Commento a SS.UU. n. 8504/2021”, in www.giustiziainsieme.it, 26 aprile 2021, “la Suprema Corte ribalta il canonico inquadramento della transazione fiscale, da istituto tributario prestato al diritto fallimentare, a istituto fallimentare prestato al diritto tributario, ivi offrendo una pragmatica visione dei rapporti fra le rationes sottese alle rispettive branche del diritto, dove la ratio concorsuale latu sensu intesa viene in qualche misura sovraordinata rispetto alla ratio tributaria, in quanto intesa come frutto di un complessivo bilanciamento costituzionalmente operato dal legislatore”.

[11] Sul fatto che la disposizione presente nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 non attenga alla giurisdizione ma alla tipologia di atti per i quali è proponibile l’impugnazione dinanzi al giudice tributario, si vedano le sentenze 14 dicembre 2016, n. 25632, e 18 febbraio 2014, n. 3774, emanate dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.

[12] Sul punto sia consentito rinviare a G. Andreani, A. Tubelli, “Transazione fiscale omologabile anche con il rigetto del fisco”, in il fisco n. 6/2021, pag. 5075 e ss.

[13] In senso analogo si veda anche L. Gambi, cit. pag. 8. Come rilevato da M. Golisano, cit., la decisione di ricondurre la questione al potere di intervento del tribunale, nell’ambito dei poteri di omologazione generali di sua competenza, “sembra decisamente militare nel senso dell’interpretazione estensiva proposta da talune corti territoriali in ordine all’attuale testo degli artt. 180 e 182-bis l.f., così da ricomprendere nel concetto di ‘mancata adesione’ non solo i casi di inerzia dell’Amministrazione, ma anche, e soprattutto, quelli di diniego espresso. In questo senso, parrebbe quindi che la Suprema Corte più che risolvere il problema del riparto giurisdizionale a fronte del dato normativo ante riforma, abbia comprensibilmente inteso limitare, in una chiara ottica nomofilattica, le possibilità di un contrasto giurisprudenziale fra le diverse corti di merito in riferimento alla normativa attualmente vigente, rendendo sin da subito palese la propria posizione sul punto, ed evitando al contempo il rischio che potesse assegnarsi alla presenza del rigetto espresso la funzione di ‘selettore’ fra la giurisdizione ordinaria (fallimentare) e quella tributaria”.

[14] Si veda Cass., 26 luglio 2012, n. 13284, secondo cui non è imposto al debitore di prevedere necessariamente la soddisfazione dei crediti contestati, ma di tenerne conto nella domanda, al fine di fornire una corretta e preventiva informazione al ceto creditorio “certo” circa la complessiva esposizione debitoria e con riguardo alla possibile ricaduta dell’esito sfavorevole del contenzioso sul trattamento riservato ai crediti privilegiati e chirografari, nonché per consentirgli di esprimere valutazioni prognostiche corrette e di atteggiarsi in modo pienamente informato circa il proprio; di conseguenza devono necessariamente trovare copertura nell’attivo concordatario solo i crediti in contenzioso giudicati dal debitore come probabilmente dovuti nell’ambito di tale valutazione (in proposito si veda anche Cass. 13 giugno 2018, n. 15414; Cass. 7 marzo 2017, n. 5689; Cass. 26 luglio 2012, n. 13284). L’eventuale decisione di inserire nel piano concordatario un apposito fondo rischi richiede dunque una stima relativa all’an e al quantum debeatur da parte del debitore, analoga a quella che questi è ordinariamente tenuto a effettuare in sede di redazione del bilancio d’esercizio (cfr. L. Boggio, “Opposizione all’omologazione dei creditori silenti e trattamento dei crediti contestato nel piano e nella relazione ex art. 161 l. fall.”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 5/2013, pag. 578).

[15] Sulla natura “precaria” dei provvedimenti adottati dal giudice delegato ai fini dell’ammissione al voto si veda Cass., Sez. I, 21 novembre 2019, n. 30456.

[16] Così Tribunale di Ravenna, 7 novembre 2013.

[17] Secondo G. La Croce, “Crediti contenziosi, accantonamenti e fattibilità del piano di concordato”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 1/2019, pag. 58, in base all’attuale formulazione del comma 6 dell’art. 180 (che, a differenza del previgente comma 3 dell’art. 181, non contiene più il riferimento alla determinazione delle somme da vincolare) il tribunale non avrebbe alcun potere discrezionale con riguardo alla quantificazione dell’accantonamento, che quindi, a prescindere dalla fondatezza o meno della pretesa sottostante, dovrebbe essere obbligatoriamente stanziato in misura ad essa corrispondente.

[18] Il ruolo è, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. n. 602/1973, l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute formato dall’ufficio ai fini della riscossione. L’iscrizione a ruolo può essere operata a titolo provvisorio o a titolo definitivo: quando le somme iscritte a ruolo discendono da atti di accertamento notificati dall’ufficio ma non ancora definitivi, il ruolo è a titolo provvisorio, ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. n. 602/1973; ai sensi dell’art. 14 del citato D.P.R. n. 602/1973, invece, l’iscrizione a ruolo è a titolo definitivo, quando ha ad oggetto somme liquidate in base ad accertamenti definitivi (perché non impugnati o perché confermati da una sentenza passata in giudicato) o discendenti da omessi versamenti di imposte liquidate in base alla dichiarazione presentata dal contribuente. Nell’ipotesi in cui l’ufficio ritenga vi sia un fondato pericolo per la riscossione (tale rischio viene ravvisato in caso di fallimento e può essere ravvisato in pendenza di concordato), il successivo art. 15-bis consente l’iscrizione delle somme a ruolo straordinario in misura pari all’intera pretesa (imposte, interessi e sanzioni). Nelle more della definizione del giudizio tributario trova altresì applicazione l’art. 68 del D.Lgs. n. 546/1992 (“Pagamento del tributo in pendenza di giudizio”), a norma del quale, nel caso in cui sia prevista la riscossione frazionata dell’imposta, l’ufficio ha la possibilità di iscrivere a ruolo le maggiori imposte dovute in base all’atto di accertamento in misura diversa in considerazione dell’andamento del giudizio.

[19] In considerazione della sua specialità, restano esclusi dalla disposizione dell’art. 90 del D.P.R. n. 602/1973 i crediti previdenziali, seppur iscritti a ruolo e portati da cartelle esattoriali. Cfr. Cass., 13 novembre 2018, n. 29195.

[20] Cfr. Decreto del Tribunale di Catania 27 settembre 2018. In dottrina si vedano S. Nicolosi, “Credito tributario contestato e fondo rischi nel concordato preventivo: il tribunale di Catania chiarisce i limiti di applicazione di Cass. 2018 n. 15414”, in www.ilcaso.it, 17 ottobre 2018.