Il Codice esclude che la scelta sia possibile solo quando l’attività può proseguire.
di Giulio Andreani
Gli articoli 56, 57 e 61 del Codice della crisi hanno messo fuori gioco una tesi, sostenuta da alcuni uffici dell’agenzia delle Entrate. Quella secondo cui alla transazione fiscale dovrebbe farsi ricorso, nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti, solo in presenza di uno stato di crisi reversibile e della prosecuzione dell’attività, e non anche quando l’impresa debitrice si trova in uno stato di liquidazione.
L’erroneità di tale tesi emerge chiaramente dal confronto dell’articolo 57 del Codice, sull’accordo di ristrutturazione, con il precedente articolo 56, che regola il piano attestato. Quest’ultima norma prevede che «l’imprenditore in stato di crisi o di insolvenza può predisporre un piano, rivolto ai creditori, che appaia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio economico e finanziario dell’impresa»; richiede quindi il risanamento dell’impresa e di conseguenza esclude che tale piano possa avere un contenuto liquidatorio. L’articolo 57, con riferimento all’accordo di ristrutturazione, stabilisce invece «gli accordi devono contenere l’indicazione degli elementi del piano economico finanziario che ne consentono l’esecuzione», ma non richiede che tale piano sia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria e il riequilibrio economico e finanziario dell’impresa, a differenza dell’articolo 56.
Ne discende che, mentre il piano attestato è incompatibile con la liquidazione dell’impresa (poiché deve essere idoneo a consentirne il risanamento e ad assicurarne il riequilibrio economico e finanziario), l’accordo di ristrutturazione dei debiti non lo è affatto (non è richiesto, per attuarlo, alcun risanamento o riequilibrio strumentale alla prosecuzione dell’attività d’impresa).
La suddetta tesi è smentita inoltre dall’articolo 61 del Codice, il quale stabilisce che l’accordo di ristrutturazione dei debiti a efficacia estesa – quello che, grazie all’adesione di una maggioranza qualificata di creditori, può essere imposto ai creditori della medesima categoria che non vi aderiscono – deve avere «carattere non liquidatorio». Ciò evidentemente significa che, fuori della fattispecie a efficacia estesa, l’accordo è attuabile anche in caso di liquidazione. Altrimenti, cioè qualora fosse precluso all’impresa in liquidazione, l’articolo 61, che richiede tale carattere del piano ai fini dell’estensione dell’efficacia dell’accordo, sarebbe del tutto inutile: richiederebbe, mediante una norma speciale, ciò che sulla base della suddetta tesi già discenderebbe dalla regola generale.
Quanto alla ratio, non si comprende perché la transazione fiscale non potrebbe essere utilizzata dall’impresa in liquidazione, posto che tale istituto è la sola forma di accordo che il debitore può utilizzare per definire – nell’ambito di un accordo di ristrutturazione – i propri debiti tributari con l’amministrazione finanziaria. Inoltre, funzione della transazione fiscale è consentire al Fisco il recupero dei propri crediti nel modo più efficiente, in base al principio di convenienza rispetto alle alternative possibili. Ed è evidente che tale funzione ha motivo di essere espletata anche quando il contribuente è in stato di liquidazione.