di Giulio Andreani
L’ordinanza 25 marzo n.8504 – con cui le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che il rigetto, da parte dell’agenzia delle Entrate, della proposta di transazione fiscale è impugnabile dinanzi al tribunale fallimentare – contiene elementi assai utili per dirimere il contrasto che si sta formando, in giurisprudenza e in dottrina, sull’interpretazione del disposto degli articoli 180 e 182-bis della legge fallimentare novellato dalla Legge 27 novembre 2020, n. 159.
Si tratta, com’è noto, del contrasto circa il potere attribuito da tali norme al Tribunale di omologare la transazione fiscale e contributiva “anche in mancanza di voto” (nel concordato preventivo), ovvero “anche in mancanza di adesione” (nell’accordo di ristrutturazione dei debiti), dell’Amministrazione finanziaria e degli Enti previdenziali alla proposta di transazione loro formulata.
Secondo una prima tesi (definita “restrittiva”), il Tribunale disporrebbe del potere-dovere di intervenire in via sostitutiva solo allorquando non sussista alcuna espressione di voto o di adesione; un secondo indirizzo (“estensivo”) considera, invece, anche il voto negativo o il rigetto dell’adesione da parte dell’erario quale presupposto della omologazione, da parte del Tribunale, della proposta del concordato o dell’accordo; secondo una terza ipotesi ricostruttiva (“intermedia”), infine, il potere sostitutivo di omologa del Tribunale ricorrerebbe sia in caso di mancata pronuncia sia in caso di rigetto della proposta nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, ma non anche nell’ambito del concordato.
Uno dei motivi che, ad avviso di chi scrive [1], militano a favore della tesi estensiva risiede nella volontà del legislatore di assicurare alle imprese debitrici una reale tutela giurisdizionale contro i provvedimenti di rigetto delle proposte di transazione, emessi dall’Amministrazione finanziaria e dagli enti previdenziali e assistenziali in contrasto con i principi affermati dall’art. 182-ter l.f.; tutela che sino all’introduzione di tali norme, pur essendo teoricamente sussistente, è risultata di fatto inattuabile. Infatti, nonostante il contrario avviso dei predetti soggetti (per quanto attiene all’Agenzia delle entrate si veda la circolare 6 maggio 2015, n. 19/E), è da ritenersi che un rimedio giurisdizionale all’illegittimo rigetto della proposta di transazione debba sussistere; dal che discende il diritto del contribuente di impugnare dinanzi al giudice quei provvedimenti che siano adottati in violazione dei principi posti dall’art. 182-ter della legge fallimentare o siano fondati su valutazioni errate, poiché il rigetto di una proposta di transazione conforme alle previsioni di tale articolo, che sia conveniente per l’Erario e per di più condizioni l’intero procedimento concorsuale, non può rimanere priva di rimedio, tanto nel concordato quanto nell’accordo di ristrutturazione dei debiti.
Sino all’entrata in vigore della novella legislativa e al termine di un annoso dibattito che aveva condotto a individuare il giudice competente talora nel giudice tributario (o, per la transazione contributiva, nel giudice del lavoro), talora nel giudice amministrativo e talora ancora nel giudice ordinario, a seguito della sentenza 14 dicembre 2016, n. 25632, emanata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (peraltro con riguardo alla c.d. transazione dei ruoli”) e di una coeva pronuncia del Consiglio di Stato, questi era stato alfine prevalentemente rinvenuto nel giudice tributario, in considerazione della natura dell’oggetto del giudizio, che attiene a dei tributi [2], e, relativamente alla transazione contributiva, nel giudice del lavoro. Tuttavia si è trattato solo di un rimedio teorico, perché i tempi della definizione di tali giudizi non sono compatibili con quelli del concordato preventivo (e neanche con quelli dell’accordo di cui all’art. 182-bis): infatti, il giudice tributario normalmente si pronuncia, quanto al primo grado di giudizio, dopo vari mesi (il più delle volte dopo circa un anno) e, in via definitiva, dopo diversi anni, e non è quindi atto a evitare la dichiarazione di inammissibilità della proposta di concordato da parte del Tribunale conseguente al mancato raggiungimento delle maggioranze di legge, la quale deve essere pronunciata in tempi assai più rapidi; né, visto il contesto, si può concretamente immaginare una sospensione del procedimento di approvazione del concordato (o degli effetti dell’accordo) per un periodo così ampio, in attesa della decisione del giudice tributario.
È quindi del tutto ragionevole ritenere che il legislatore si sia fatto carico di introdurre nel Codice della crisi d’impresa – e, con la Legge n. 159/2020, nella Legge fallimentare – delle disposizioni che forniscono una reale tutela giurisdizionale contro provvedimenti della Pubblica amministrazione adottati in violazione dell’art. 182-ter, attribuendo al Tribunale fallimentare (come aveva suggerito lo stesso CNDCEC) il potere di giudicare la legittimità dei provvedimenti di rigetto, approvando nella sostanza le proposte di transazione rigettate illegittimamente, ove l’approvazione delle stesse sia “determinante” o “decisiva” [3]. Tali disposizioni sono, ad avviso di chi scrive, quelle inserite negli artt. 180 e 182-bis l.f. dalla Legge n. 159/2020: svilirebbe pertanto la loro portata e contrasterebbe con il contesto da cui esse hanno tratto origine un’interpretazione che ne delimitasse il campo di applicazione al solo caso della mancata espressione del voto o di una pronuncia sulla proposta. In questa prospettiva si rivelerebbe ora incoerente e asistematico attribuire al legislatore l’intenzione di istituire una sorta di “doppio binario”, ovverosia di conferire al Tribunale il potere di decidere in ordine alla transazione fiscale in caso di mancata espressione del diritto di voto da parte del Fisco, da un lato, e, dall’altro, di continuare a rimettere al giudice tributario il potere di decidere sulla stessa in caso di manifestazione di voto negativo, con un conseguente e discriminatorio allungamento dei tempi di esecuzione della procedura in quest’ultimo caso.
La citata ordinanza, con cui la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata sul ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione proposto dall’agenzia delle Entrate, in merito alla causa originata dal rigetto della domanda di transazione fiscale che la società istante aveva impugnato dinanzi alla Commissione Tributaria, ci pare rafforzi il motivo testé esposto. Con essa sono stati infatti affermati i seguenti principi:
1. La transazione fiscale costituisce, nell’ambito della “procedura-madre” dell’accordo di ristrutturazione dei debiti o del concordato preventivo, un sub-procedimento avente a oggetto il trattamento dei crediti tributari, connotato da “esclusività”, nel senso che il soddisfacimento di tali crediti può essere regolamentato (con la sola eccezione del caso in cui vengano pagati integralmente e senza dilazione) esclusivamente attraverso la transazione fiscale prevista dall’art. 182-ter della legge fallimentare.
2. Tale carattere esclusivo rivela la prevalenza, nella transazione fiscale, della ratio concorsuale su quella tributaria, almeno in un’ottica funzionale, essendo essa finalizzata alla definizione concordataria o di ristrutturazione debitoria della crisi d’impresa secondo le regole procedurali dettate dalla legge fallimentare.
3. La configurazione della transazione fiscale è transitata sostanzialmente immutata dal citato art. 182-ter nel Codice della crisi e nella novella legislativa introdotta negli articoli 180 e 182-bis della legge fallimentare dalla Legge 27 novembre 2020 n. 159, senza soluzione di continuità; ne discende che queste ultime disposizioni possono essere utilmente impiegate come elemento di valutazione ermeneutica della originaria disciplina, il che assume particolare rilevanza ai fini della risoluzione della questione di cui trattasi. Infatti, mentre nell’art. 182-ter non sono presenti disposizioni concernenti l’impugnabilità della mancata adesione alla proposta di transazione fiscale, le nuove versioni dei citati articoli 180 e 182-bis contengono una previsione assai precisa e pregnante, individuando in quello fallimentare il giudice competente per pronunciarsi su tale mancata adesione.
4. Il legislatore della riforma ha incastonato la transazione fiscale con maggior chiarezza nel campo del diritto fallimentare, ancorché siano evidenti i riflessi di diritto tributario, su di un piano di continuità.
5. La transazione fiscale rappresenta l’esigenza di bilanciare l’interesse fiscale con l’interesse concorsuale, sicché la discrezionalità riconosciuta all’amministrazione finanziaria nello stipulare accordi transattivi è bilanciata dal sindacato giudiziale sul diniego di accettazione della proposta di transazione, che risulta assegnato al giudice ordinario fallimentare; e proprio per questo motivo la Suprema Corte ha ritenuto che anche sotto la previgente disciplina tale sindacato fosse comunque affidato allo stesso tribunale fallimentare, nell’ambito selle sue competenze omologatorie generali.
6. Non può ritenersi sufficiente a far rientrare nella sfera di applicazione della giurisdizione tributaria la mera natura giuridica delle obbligazioni oggetto della transazione fiscale, essendo prevalente la finalità concorsuale dell’accordo transattivo e quindi del suo mancato raggiungimento a causa del dissenso opposto dall’Ente impositore.
Da questi principi discende che la tutela giurisdizionale compete sempre all’impresa debitrice, perché il giudice deve bilanciare la discrezionalità degli Enti impositori, cui va infatti attribuita natura “vincolata”: non solo quando tale Enti non si pronunciano ma, e con non minor necessità, anche quando si pronunciano, posto che – proprio in questo caso – è necessario sia verificare la conformità alla legge della loro pronuncia e se il provvedimento da essi emesso esprime correttamente l’interesse fiscale, sia bilanciare l’interesse fiscale da essi espresso (ove sia manifestato correttamente) con l’interesse concorsuale, che è prevalente. Il compito di eseguire tale verifica e operare tale bilanciamento di interessi è affidato al Tribunale fallimentare.
La tesi “restrittiva”, secondo cui il rigetto espresso potrebbe essere impugnato solo dal giudice tributario e il Tribunale non avrebbe – a seguito del diniego – il potere di disporre la omologazione “coattiva” del concordato o dell’accordo, oltre a creare ingiustificati trattamenti differenziati in merito alla giurisdizione – impedirebbe tanto la verifica della conformità del rigetto all’interesse fiscale e alla legge, quanto il bilanciamento tra l’interesse fiscale e quello concorsuale. Ci sembrano ulteriori ottimi motivi per disattenderla.