di Giulio Andreani e Angelo Tubelli
La Legge n. 159/2020 ha modificato gli artt. 180 e 182-bis della Legge fallimentare, attribuendo al Tribunale il potere di omologare gli accordi di ristrutturazione dei debiti fiscali e contributivi anche in mancanza di adesione da parte dell’Agenzia delle entrate e dell’INPS quando (i) l’adesione è determinante e (ii), anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria. Per ragioni logico-sistematiche è da ritenere che la nuova disposizione debba trovare applicazione non solo nel caso in cui i suddetti enti non si pronuncino sulle proposte loro formulate, ma anche in presenza di un espresso diniego. Infatti la ratio di tale previsione consiste nel superamento delle ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate, spesso registrate nella prassi, nonostante la convenienza della proposta transattiva.
1. Premessa
Con la Legge 27 novembre 2020, n. 159, il legislatore ha opportunamente deciso di introdurre nella Legge fallimentare alcune norme, relative alla transazione fiscale e contributiva previste dal D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (“Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”), che sarebbero dovute entrare in vigore il 1° settembre 2021. La lettura di tali norme pone tuttavia delicate questioni interpretative, che vengono affrontate in questo articolo.
2. Trattamento dei crediti tributari privilegiati degradati a chirografo
La disciplina della transazione fiscale si fonda su due principi cardine, ovverosia (i) il principio della convenienza per l’Erario della transazione proposta, integrato nell’ambito del concordato preventivo da quello della capienza e del rispetto dell’ordine delle cause di prelazione, e (ii) il principio del divieto di trattamento deteriore dei crediti fiscali [1].
Il primo principio è rispettato se la proposta prevede il soddisfacimento, parziale o anche dilazionato, dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali in misura non inferiore a quella realizzabile attraverso l’alternativa liquidatoria [2], tenuto conto del valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione dell’Erario, attestato da un professionista munito dei requisiti di cui all’art. 67, comma 3, lett. d), l.f. Così come accade per la generalità dei crediti privilegiati, la condizione per proporre il pagamento parziale o dilazionato dei crediti tributari privilegiati (compresi IVA e ritenute alla fonte) è dunque costituita dall’oggettiva incapienza del valore di realizzo attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, attestato da un esperto qualificato.
Il secondo principio è soddisfatto se il trattamento riservato ai crediti erariali privilegiati non è deteriore rispetto a quello destinato ad altri crediti caratterizzati da una posizione giuridica e da interessi economici omogenei ovverosia sulla base degli stessi criteri di formazione delle classi prescritti dall’art. 160, comma 1, lett. c), l.f.: è rispettato quindi se la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie offerti all’Erario non sono inferiori o meno vantaggiosi rispetto a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore e ai creditori chirografari.
Posto che, qualora non si rinvengano crediti omogenei a quelli tributari e contributivi, il trattamento di riferimento di questi ultimi resta unicamente quello riservato agli altri crediti di rango inferiore [3], giova rilevare al riguardo che le disposizioni sopra citate possono essere interpretate come espressa deroga al divieto di alterazione della graduatoria dei privilegi (ovverosia dell’ordine delle cause di prelazione sancito dagli artt. 2777 e 2778 c.c.) da chi sostiene la “tesi della priorità assoluta” (cui ha aderito la Corte di cassazione con la sentenza n. 10884 dell’8 giugno 2020), secondo la quale, nell’ipotesi di pagamento parziale dei creditori privilegiati ex art. 160, comma 2, l.f., non sarebbe legittimo dare luogo al pagamento di un creditore di grado successivo prima di avere integralmente soddisfatto quelli con collocazione precedente: in base a questo indirizzo, infatti, con il secondo periodo del comma 1 dell’art. 182-ter il legislatore avrebbe inteso ammettere il pagamento (parziale) di crediti assistiti da un grado di privilegio successivo a quello che assiste il credito tributario nonostante il pagamento non integrale del credito tributario, a condizione tuttavia che il trattamento riservato a quest’ultimo non sia deteriore rispetto a quello offerto ai crediti privilegiati di grado successivo [4].
Da parte di chi aderisce alla “tesi della priorità relativa” la condizione imposta nel secondo periodo del comma 1 è invece vista come conferma, in caso di incapienza dell’attivo, della possibilità generale (che discenderebbe dal comma 2 dell’art. 160 l.f.) di soddisfare un creditore di grado successivo anche senza avere integralmente soddisfatto quelli con collocazione precedente, a patto che questi ricevano comunque un miglior soddisfacimento [5].
Ad ogni modo, in entrambi i casi il trattamento proposto al credito tributario (o previdenziale) privilegiato va confrontato con quello offerto ai crediti di diversa natura assistiti da un grado di privilegio che si collocano in una posizione posteriore secondo l’ordine dettato dagli artt. 2777 e 2778 c.c.
Quanto ai crediti erariali chirografari, l’ultima parte del secondo periodo del comma 1 dell’art. 182-ter prevede che a essi non può essere applicato un trattamento differenziato rispetto a quello offerto agli altri creditori chirografari e, nel caso di una loro suddivisione in classi, deve essere loro riservato lo stesso trattamento previsto per i creditori chirografari cui è assicurato il trattamento più favorevole. Dalla lettera della norma non era dato comprendere:
a) se le disposizioni concernenti il divieto di trattamento dei crediti erariali chirografari trovassero applicazione, non solo con riguardo a quelli che sono chirografari sin dall’origine, ma anche con riferimento ai crediti privilegiati divenuti chirografari per effetto della degradazione dipendente dall’incapienza dell’attivo;
b) se, invece, le comparazioni previste da tali disposizioni riguardassero esclusivamente, da un lato, il trattamento dei crediti erariali privilegiati ab origine che non subiscono alcuna degradazione (da confrontare con quello degli altri crediti privilegiati) e, dall’altro lato, il trattamento dei crediti erariali chirografari ab origine (da confrontare con quello degli altri crediti chirografari).
Gli effetti pratici discendenti dalle due interpretazioni sono assai diversi: dalla tesi indicata sub b) conseguirebbe, infatti, che a nessuna comparazione sarebbero soggetti i crediti privilegiati degradati in chirografari per incapienza dell’attivo, i quali potrebbero quindi essere soddisfatti anche con una percentuale semplicemente simbolica, notevolmente inferiore a quella offerta agli altri creditori chirografari.
Da tempo chi scrive sostiene che la tesi corretta è quella sopra indicata sub a), perché l’altra svilirebbe radicalmente la previsione legislativa che stabilisce la costituzione obbligatoria di una apposita classe avente a oggetto i crediti erariali privilegiati degradati (a causa dell’incapienza dell’attivo) in chirografari: in tal caso, infatti, nessun debitore offrirebbe per il soddisfacimento di questi ultimi più di una misera percentuale, generandosi in questo modo il medesimo effetto che si otterrebbe in assenza della costituzione di tale classe. Se così fosse stato, inoltre, la comparazione, in quanto avente ad oggetto i crediti erariali chirografari sin dall’origine, sarebbe stata prevista solo per un numero così limitato e irrilevante di crediti, quale è quello dei crediti erariali chirografari ab origine, da rendere sostanzialmente inutile la previsione legislativa che la ha prevista.
Infine, non avrebbe avuto molto senso una norma che avesse previsto l’obbligo di pagare i crediti erariali chirografari sin dall’origine in misura non inferiore agli altri crediti chirografari, ma, al tempo stesso, consentisse di soddisfare in misura notevolmente inferiore i crediti erariali assistiti da privilegio e divenuti chirografari solo a seguito della degradazione dovuta all’incapienza dell’attivo.
Sulla questione è stata fatta opportunamente chiarezza. Infatti su di essa:
– dapprima si era espressa l’Agenzia delle entrate che, con la circolare n. 16/E del 23 luglio 2018, ha confermato queste considerazioni, chiarendo che le regole disciplinanti i crediti di natura chirografaria ab origine, dettate dal comma 1 dell’art. 182-ter, “trovano applicazione anche con riferimento ai crediti privilegiati divenuti chirografari per effetto della degradazione (…). Ad esempio, se tra i creditori muniti di diritto di prelazione vi è anche l’Agenzia delle entrate e il debitore propone il pagamento del debito tributario nella misura del 30%, il residuo credito, pari al 70%, degraderà al chirografo e confluirà in una apposita classe”;
– poi, con la Legge n. 159/2020 è intervenuto lo stesso legislatore, il quale, confermando del pari la tesi testé esposta, ha stabilito che le disposizioni di cui trattasi si applicano specificamente ai crediti chirografari “anche a seguito di degradazione per incapienza”.
Il legislatore ha quindi preferito intervenire direttamente sulla questione dirimendola in via normativa, sebbene essa paresse aver già trovato soluzione in via interpretativa.
3. Mancanza di voto e di adesione
Una delle modifiche più rilevanti apportate alla Legge fallimentare dalla Legge n. 159/2020, in tema di transazione fiscale, riguarda il significato delle espressioni “anche in mancanza di voto” e “anche in mancanza di adesione” inserite rispettivamente nel comma 4 dell’art. 180 l.f., con riferimento al concordato preventivo, e nel comma 5 dell’art. 182-bis con riferimento all’accordo di ristrutturazione dei debiti.
Occorre in proposito rammentare che l’art. 48 del Codice della crisi d’impresa, disciplinante l’omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti, al comma 5 stabilisce testualmente quanto segue: “Il Tribunale omologa gli accordi di ristrutturazione o il concordato preventivo anche in mancanza di adesione da parte dell’Amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui agli artt. 57, comma 1, 60 comma 1, e 109, comma 1, e quando, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta Amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria”.
Come detto, al dichiarato scopo di anticipare l’applicazione di detta disposizione, l’art. 3, comma 1-bis, del D.L. n. 125/2020, inserito dalla Legge n. 159/2020 in sede di conversione del decreto, ha apportato le seguenti modificazioni alla Legge fallimentare:
a) all’art. 180, comma 4, è stato aggiunto il seguente periodo: “Il Tribunale omologa il concordato preventivo anche in mancanza di voto da parte dell’Amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all’art. 177 e quando, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista di cui all’art. 161, terzo comma, la proposta di soddisfacimento della predetta Amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria”;
b) all’art. 182-bis, comma 4, è stato aggiunto il seguente periodo: “Il Tribunale omologa l’accordo anche in mancanza di adesione da parte dell’Amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l’adesione è decisiva ai fini del raggiungimento della percentuale di cui al primo comma e quando, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista di cui al medesimo comma, la proposta di soddisfacimento della predetta Amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria”.
In occasione dello “sdoppiamento” della previsione contenuta nell’art. 48, comma 5, del Codice della crisi d’impresa (reso necessario in quanto, nell’ambito della Legge fallimentare, la procedura di omologazione del concordato preventivo e quella di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti sono disciplinate da due disposizioni diverse, ovverosia rispettivamente i citati artt. 180 e 182-bis e, inoltre, perché l’art. 178, comma 4, l.f. equipara la mancata espressione del diritto di voto da parte del creditore al voto contrario alla proposta concordataria), il legislatore ha ritenuto di utilizzare due locuzioni diverse per indicare il presupposto per l’attribuzione al Tribunale del potere di decidere in merito alla convenienza della transazione fiscale: il suddetto potere decisorio, infatti, scatta “anche in mancanza di voto” con riferimento al concordato preventivo e “anche in mancanza di adesione” con riferimento agli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Ciò posto, occorre stabilire [6] se la “mancanza” del voto o dell’adesione dell’Amministrazione finanziaria e/o degli enti previdenziali e assistenziali – ivi prevista quale presupposto della omologazione della transazione fiscale e contribuiva da parte del Tribunale – ricorre soltanto quando tali soggetti non si pronuncino sulle proposte loro formulate ovvero anche quando si pronunciano rigettando la proposta (sempre che, come le medesime norme richiedono, la loro adesione sia “determinante” ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all’art. 177 l.f. o “decisiva” ai fini del raggiungimento della soglia del 60% prevista dall’art. 182-bis l.f.).
Orbene, in dottrina [7] è stato evidenziato che la locuzione “in mancanza di adesione” intuitivamente comprende non solo l’ipotesi del rigetto tacito della proposta transattiva, ma anche l’ipotesi dell’espresso rigetto della stessa con apposito atto notificato alla ricorrente; per altro verso, invece, l’espressione “in mancanza di voto” si presterebbe a ricomprendere solo l’ipotesi della mancata manifestazione di voto da parte dell’Agenzia delle entrate. La latitudine della locuzione “in mancanza di voto” potrebbe dunque rivelarsi meno ampia dell’altra, corrispondendo a due concetti diversi, con conseguente esclusione dell’ipotesi di voto contrario alla proposta concordataria. Inoltre questa interpretazione restrittiva con riguardo al concordato preventivo sarebbe in linea con la previsione contenuta nel considerando (64) della Direttiva UE 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, che consente agli Stati membri di “decidere come comportarsi con i creditori che hanno ricevuto correttamente la notifica ma che non hanno partecipato alle procedure”.
Con riferimento al primo aspetto, si è però dapprima riferito della genesi unitaria delle due disposizioni, che costituiscono null’altro che l’anticipata attuazione dell’unica disposizione contemplata dall’art. 48, comma 5, del Codice della crisi d’impresa, le quali non possono che essere espressione della medesima voluntas legis. Affermare il contrario equivarrebbe a sostenere che soltanto per il brevissimo periodo “transitorio” intercorrente tra il 4 dicembre 2020 (data di entrata in vigore della Legge n. 159/2020) e il 1° settembre 2021 (data di entrata in vigore del suddetto Codice) il legislatore avrebbe inteso stabilire sul punto due discipline diverse per il cram down (una per il concordato preventivo, una per gli accordi di ristrutturazione dei debiti), mentre una tale impostazione appare irragionevole oltre che del tutto priva di giustificazione. Alle due locuzioni dovrebbe essere perciò attribuita la medesima latitudine, in considerazione della comune genesi.
Quanto alla seconda argomentazione, la tesi “estensiva” non sembra porsi in contrasto con la normativa eurounionale, giacché ai sensi del citato art. 178 l.f. la mancata espressione del voto è in toto equiparata all’espressione del voto negativo. Tant’è che l’ente creditore pubblico, che abbia partecipato alla procedura di voto, mantiene comunque il diritto di opporsi all’omologazione del concordato preventivo e far valere così in tale sede le proprie ragioni, comprese quelle concernenti la mancanza di convenienza del trattamento previsto nella transazione fiscale o contributiva.
Per ragioni logico-sistematiche è da ritenersi che le disposizioni aggiunte dalla Legge n. 159/2020 agli artt. 180 e 182-bis l.f. trovino applicazione non solo nel caso in cui l’Agenzia delle entrate e/o gli enti previdenziali non si pronunciano sulle proposte loro formulate, ma anche quando le rigettano. Infatti (come si legge nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 14/2019) tali norme intendono “superare ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate, spesso registrate nella prassi” e non vi è dubbio che tali resistenze possono concretizzarsi sia qualora l’ente creditore dilazioni oltre misura la risposta alla proposta di transazione, sia qualora esso la rigetti espressamente. Questa conclusione trova inoltre conforto nella lettera della nuova norma, atteso che tanto l’espressione “anche in mancanza di adesione” (utilizzata nel novellato comma 5 dell’art. 182-bis della Legge fallimentare con riguardo all’accordo di ristrutturazione) quanto l’espressione “anche in mancanza di voto” (utilizzata nel novellato comma 4 dell’art. 180 della Legge fallimentare a proposito del concordato preventivo) possono essere letteralmente intese, non solo come assenza di risposta da parte dell’Erario o degli enti previdenziali, ma anche come risposta negativa, e sono comunque tali da non ostacolare la conclusione testé rappresentata in conformità alla ratio desumibile dalla menzionata relazione illustrativa [8].
Del resto la norma fa riferimento alla “mancanza” di voto o di adesione, che anche letteralmente comunque rappresenta qualcosa di più della semplice “mancanza di espressione” del voto e dell’adesione. E, se proprio se si volesse trarre dalla lettera di tali norme un’incertezza interpretativa, questa dovrebbe essere superata sulla base della ratio delle stesse, che conduce alla conclusione testé esposta. Occorre infatti considerare che queste disposizioni sono state introdotte per un duplice scopo: quello di evitare che il Fisco e gli enti previdenziali continuassero a impiegare tempi irragionevoli (talvolta persino due anni) per pronunciarsi sulle proposte di transazione loro formulate e quello di impedire (come talvolta è accaduto) che alcune proposte vengano rigettate, sebbene siano convenienti per l’Erario, semplicemente perché prevedono un soddisfacimento troppo “limitato” dei crediti fiscali e contributivi (peraltro quale sarebbe il criterio da utilizzare per stabilire quando un pagamento è limitato e quando no, se non quello della convenienza che prescinde dal valore assoluto del soddisfacimento offerto?).
Ciò posto, se le norme di cui trattasi dovessero essere interpretate nel senso che per “mancanza” di voto o di adesione si intende solo la mancata espressione del voto o dell’adesione, pur rimanendo tutelata la prima di tali finalità, non lo sarebbe affatto la seconda: non lo sarebbe nell’accordo di ristrutturazione, che vincola solo i creditori che lo sottoscrivono, e non lo sarebbe nella sostanza nel concordato preventivo, perché almeno l’Agenzia delle entrate il proprio voto in tale ambito è solita esprimerlo. Una simile interpretazione equivarrebbe quindi a ridurre sensibilmente l’utilità delle norme di cui trattasi e risulterebbe ben poco aderente alla ratio della novella legislativa sopra richiamata. È vero che il concordato potrebbe essere comunque approvato dal voto favorevole di altri creditori, ma il fatto che le “resistenze” richiamate nella relazione accompagnatoria del Codice della crisi d’impresa possano essere superate dal voto maggioritario espresso favorevolmente da altri creditori, nel qual caso non vi è bisogno delle norme in questione perché Fisco ed enti non sono determinanti, non può escluderne l’applicazione proprio quando invece il voto di tali soggetti determinante lo è, vale a dire nel proprio nel caso tali norme in cui dovrebbero trovare applicazione per superare quelle “resistenze”.
Vi è poi da considerare che, a ben vedere, le disposizioni introdotte dalla Legge n. 159/2020 perseguono anche un altro, non meno importante, fine, che è quello di assicurare alle imprese debitrici una reale tutela giurisdizionale contro i provvedimenti di rigetto delle proposte di transazione, emessi dall’Amministrazione finanziaria e dagli enti previdenziali e assistenziali in contrasto con i principi affermati dall’art. 182-ter l.f.; tutela che sino all’introduzione di tali norme, pur essendo teoricamente sussistente, è risultata di fatto inattuabile. Infatti, nonostante il contrario avviso dei predetti soggetti (per quanto attiene all’Agenzia delle entrate si veda la circolare 6 maggio 2015, n. 19/E), è da ritenersi che un rimedio giurisdizionale all’illegittimo rigetto della proposta di transazione debba sussistere, posto che l’esame di tali proposte deve essere informato al principio della convenienza sancito dall’art. 182-ter e, pur richiedendo valutazioni e comparazioni, non lascia spazio alla discrezionalità; dal che discende il diritto del contribuente di impugnare dinanzi al giudice quei provvedimenti che siano adottati in violazione di tale principio o siano fondati su valutazioni errate. Altrimenti detto, l’approvazione di una proposta di transazione conforme alle previsioni del citato art. 182-ter, che sia conveniente per l’Erario, costituisce per la Pubblica amministrazione un obbligo, la cui violazione non può rimanere priva di rimedio. L’interesse dell’impresa debitrice a impugnare il diniego del Fisco e degli enti è evidente nel concordato preventivo ogniqualvolta il voto di tali soggetti sia determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all’art. 177 l.f., atteso che, se tali maggioranze vengono comunque raggiunte, gli effetti delle proposte di transazione si producono nonostante il rigetto di queste ultime, ma non si generano quando il voto del Fisco e degli enti è determinante ai fini dell’approvazione delle proposte. Nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti dovrebbe ritenersi, invece, che tale interesse sussista sempre, visto che in tale contesto non vige la regola generale del cram down.
Sino all’entrata in vigore della novella legislativa e al termine di un annoso dibattito che aveva condotto a individuare il giudice competente talora nel giudice tributario (o, per la transazione contributiva, nel giudice del lavoro), talora nel giudice amministrativo e talora ancora nel giudice ordinario, con la sentenza 14 dicembre 2016, n. 25632, emanata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, questi era stato alfine rinvenuto nel giudice tributario, in considerazione della natura dell’oggetto del giudizio, che attiene a dei tributi [9], e, relativamente alla transazione contributiva, nel giudice del lavoro. Precisamente, con tale pronuncia, i giudici di legittimità hanno sancito che “la giurisdizione del giudice tributario ha carattere pieno ed esclusivo, estendendosi non solo all’impugnazione del provvedimento impositivo, ma anche alla legittimità di tutti gli atti del procedimento” e che l’art. 7, comma 4, dello Statuto del contribuente “si limita ad attribuire alla giurisdizione del giudice amministrativo, secondo i normali criteri di riparto, l’impugnazione di atti amministrativi a contenuto generale o normativo, ovvero di atti di natura provvedimentale che costituiscano un presupposto dell’esercizio della potestà impositiva”.
Tuttavia si è trattato solo di un rimedio teorico, perché i tempi della definizione di tali giudizi non sono compatibili con quelli del concordato preventivo (e neanche con quelli dell’accordo di cui all’art. 182-bis): infatti, esso è costituito dall’impugnazione del rigetto della proposta di transazione dinanzi al giudice tributario, in merito alla quale quest’ultimo normalmente si pronuncia, quanto al primo grado di giudizio, dopo vari mesi (il più delle volte dopo circa un anno) e, in via definitiva, dopo diversi anni, e non è quindi atto a evitare la dichiarazione di inammissibilità della proposta di concordato da parte del Tribunale conseguente al mancato raggiungimento delle maggioranze di legge, la quale deve essere pronunciata in tempi assai più rapidi; né, visto il contesto, si può concretamente immaginare una sospensione del procedimento di approvazione del concordato per un periodo così ampio, in attesa della decisione del giudice tributario.
È quindi del tutto naturale che il legislatore si sia fatto carico di introdurre nel Codice della crisi d’impresa e, con la Legge n. 159/2020, nella Legge fallimentare delle disposizioni che forniscano una reale tutela giurisdizionale contro provvedimenti della Pubblica amministrazione adottati in violazione dell’art. 182-ter, attribuendo al Tribunale fallimentare (come aveva suggerito lo stesso CNDCEC) il potere di giudicare la legittimità dei provvedimenti di rigetto, approvando nella sostanza le proposte di transazione rigettate illegittimamente, ove l’approvazione delle stesse sia “determinante” o “decisiva”[10]. Tali disposizioni sono quelle inserite negli artt. 180 e 182-bis l.f. dalla Legge n. 159/2020: svilirebbe pertanto la loro portata e contrasterebbe con il contesto da cui esse hanno tratto origine un’interpretazione che ne delimitasse il campo di applicazione al solo caso della mancata espressione del voto o di una pronuncia sulla proposta. In questa prospettiva si rivelerebbe ora incoerente e asistematico attribuire al legislatore l’intenzione di istituire (fino all’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa) una sorta di “doppio binario”, ovverosia di conferire al Tribunale il potere di decidere in ordine alla transazione fiscale in caso di mancata espressione del diritto di voto da parte del Fisco, da un lato, e, dall’altro, di continuare a rimettere al giudice tributario il potere di decidere sulla stessa in caso di manifestazione di voto negativo, con conseguente allungamento dei tempi di esecuzione della procedura e, dunque, in palese contrasto con la ratio della norma in commento [11].
Invero, proprio dalla esclusiva competenza attribuita in materia fiscale al giudice tributario autorevole dottrina trae la convinzione per cui il potere di sindacato del giudice ordinario dovrebbe potersi attivare soltanto in caso di omessa risposta da parte degli uffici pubblici, ma non nel caso di espresso diniego alla proposta transattiva, trattandosi di un atto impugnabile dinanzi al giudice tributario; inoltre, qualora si convenga sulla possibilità che la proposta di transazione fiscale possa contenere anche una proposta di definizione di eventuali contenziosi tributari pendenti, ammettere l’esercizio del potere di cram down in caso di diniego espresso alla proposta di definizione del contenzioso in essere (e dunque anche della proposta transattiva che la contiene) significherebbe trasferire al giudice tributario il potere di decidere sul contenzioso tributario in essere12. Tuttavia, alla prima considerazione occorre replicare che anche il silenziorifiuto della proposta transattiva da parte dell’Amministrazione finanziaria può costituire un atto ordinariamente impugnabile di fronte al giudice tributario; sostenere un’opinione diversa equivarrebbe a sostenere l’inverosimile introduzione, da parte del legislatore, del “doppio binario” testé evocato. La seconda questione va risolta a monte, nel senso che in realtà il potere di sindacato eccezionalmente attribuito dal legislatore al giudice ordinario non può che restare confinato al giudizio (da parte di tale autorità) sulla convenienza della proposta transattiva rispetto all’alternativa liquidatoria. Tale potere, quindi, non può in alcun modo intendersi esteso al giudizio sulla fondatezza o meno della pretesa tributaria/contributiva e sui motivi di impugnazione della stessa da parte del contribuente, talché, qualora la proposta di transazione fiscale contenga una proposta di definizione di contenziosi tributari pendenti da parte del contribuente, in assenza di risposta ovvero in presenza di diniego espresso da parte dell’ente pubblico creditore la proposta di transazione fiscale non potrà essere mai approvata dal Tribunale in sostituzione di quest’ultimo, rendendosi necessario in tal caso il suo espresso consenso.
3.1. Data da cui l’adesione si considera mancante
La nuova norma sul cram down, pur ricalcando quella recata dal comma 5 dell’art. 48 del Codice della crisi e dell’insolvenza, pone ulteriori problematiche interpretative.
Infatti essa non dispone alcunché circa la data a partire dalla quale l’adesione può essere considerata “mancante”, a differenza di quanto prevede il comma 2 dell’art. 63 di tale Codice, ai sensi del quale “ai fini del comma 5 dell’art. 48 l’eventuale adesione deve intervenire entro sessanta giorni dal deposito della proposta di transazione”, elevati a novanta dal D.Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147, contenente disposizioni integrative e correttive del Codice della crisi d’impresa (c.d. Decreto correttivo). Si tratta di una lacuna di non poco conto, perché manca l’indicazione del giorno a decorrere dal quale, nel caso in cui le Entrate e gli enti non si pronuncino, l’impresa debitrice può chiedere l’omologazione dell’accordo nonostante il silenzio di tali creditori (il medesimo problema non si pone se la proposta è rigettata, perché in questo caso è chiaro quando la mancata adesione si manifesta). È opportuno che tale lacuna venga colmata, ma, in attesa che ciò accada, sarebbe errato ritenere inapplicabile la disposizione di cui trattasi a causa della omessa indicazione del dies a quo in parola, essendo chiara l’intenzione del legislatore di consentire la omologazione dell’accordo anche in difetto dell’adesione. Il dies a quo dovrà quindi essere individuato in via interpretativa e quello di novanta giorni dal deposito della proposta di transazione, stabilito dal Codice della crisi d’impresa, può costituire un utile riferimento.
Analoga esigenza non sussiste invece relativamente al concordato preventivo, perché in questo caso il termine dal quale l’adesione alla proposta di transazione si deve intendere “mancante” è necessariamente costituito dal ventesimo giorno successivo alla chiusura del processo verbale dell’adunanza dei creditori, la cui data è stabilita dal Tribunale con il decreto di ammissione alla procedura.
3.2. Natura determinante o decisiva dell’adesione
Un altro profilo da approfondire è quello relativo alla individuazione dei casi in cui l’adesione alla proposta di transazione è da considerare “decisiva” e il voto è da ritenere “determinante”.
L’adesione, con riguardo all’accordo di ristrutturazione dei debiti, dovrebbe essere decisiva quando di per sé o congiuntamente a quella di altri creditori è tale da consentire il raggiungimento della soglia del 60% dei crediti complessivi. Lo è quindi l’adesione del Fisco (o quella dell’INPS), se l’ammontare dei suoi crediti rappresenta, ad esempio, il 41% di quelli complessivi e altri creditori, titolari del 22% dei crediti, aderiscono anch’essi all’accordo. Che cosa accade però nel caso in cui ognuna delle due adesioni (del Fisco e dell’INPS) risulti decisiva congiuntamente all’altra, ma potrebbe percentualmente non esserlo se si considerassero anche le adesioni di altri creditori (ad esempio, se i crediti tributari rappresentano il 41% dei crediti, quelli delle banche aderenti il 21% e i crediti previdenziali il 20%)? Le adesioni di altri creditori non dovrebbero far venire meno il ruolo decisivo che, senza di esse, avrebbero quelle dell’Agenzia delle entrate o dell’INPS: in tal caso entrambe le adesioni sarebbero pertanto da ritenere decisive. Nella sostanza Fisco ed enti dovrebbero essere considerati, ai fini di cui trattasi, come un unico soggetto. Le loro adesioni dovrebbero quindi risultare “non decisive” soltanto quando altri creditori aderenti rappresentano da soli il 60% dei crediti.
Si assuma, ad esempio, che i creditori dell’impresa in crisi appartengano a cinque categorie diverse, l’Agenzia delle entrate, l’INPS, le banche, i fornitori e la categoria residuale degli altri creditori, e che i creditori che costituiscono ognuna di esse siano titolari di crediti pari al 20% dell’importo complessivo dei debiti dell’impresa che propone l’accordo di ristrutturazione. Sulla base del criterio sopra esposto il Fisco e l’INPS risulterebbero certamente decisivi se, tra gli altri creditori, solo le banche aderissero all’accordo di ristrutturazione loro proposto, perché soltanto considerando anche Fisco e INPS la soglia del 60% verrebbe in tal caso raggiunta; essi risulterebbero decisivi anche nel caso in cui sia le banche sia i fornitori aderiscano all’accordo, perché è vero che sarebbe sufficiente l’adesione di uno solo di tali soggetti per raggiungere la soglia predetta, ma che criterio potrebbe essere adottato per stabilire quale delle due adesioni è da considerare superflua e dunque non “decisiva”? Da qui l’esigenza di considerare ai fini de quibus Fisco e INPS unitariamente, appunto come se si trattasse di un unico soggetto. Non che un criterio di esclusione non possa essere individuato, ad esempio in ragione della data in cui le proposte vengono approvate ovvero dell’ammontare delle stesse, ma in assenza di una norma che lo preveda sarebbe arbitrario introdurlo in via interpretativa. Nel caso in cui, infine, tutti i creditori aderissero all’accordo di ristrutturazione, né l’adesione dell’Agenzia delle entrate né quella dell’INPS risulterebbe “decisiva”. Anche con riguardo a questa ipotesi si potrebbe obiettare che non esiste un criterio di esclusione della rilevanza di un’adesione a beneficio dell’altra, con la conseguenza che tutte dovrebbero essere considerate “decisive”; tuttavia in tal modo si finirebbe per qualificare come “decisiva” qualsiasi adesione e conseguentemente per attribuire al Tribunale il potere di omologare l’accordo “in supplenza” senza limitazioni, il che contrasta con il disposto del novellato comma 5 dell’art. 182-bis l.f., che invece, attraverso la previsione del requisito della decisività, limita i presupposti di intervento del Tribunale con funzione di “supplenza”.
Il fatto è che la limitazione del campo di applicazione delle disposizioni di cui trattasi ai casi in cui l’adesione è “determinante” (o “decisiva”) è giustificata nel concordato preventivo, ma non lo è nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Nel concordato, infatti, se le adesioni del Fisco e degli enti non sono determinanti, l’eventuale approvazione “in supplenza” da parte del Tribunale è priva di rilievo: ciò perché, come si è già rilevato, se le maggioranze sono state raggiunte anche senza tali adesioni, gli effetti delle proposte si producono nonostante la mancata approvazione da parte di tali soggetti, ai sensi dell’art. 184 l.f.; se invece le maggioranze non sono state raggiunte, non essendo le adesioni di cui trattasi “determinanti” tali maggioranze non verrebbero raggiunte nemmeno con l’approvazione “in supplenza” delle transazioni. Con riferimento all’accordo di cui all’art. 182-bis, invece, posto che i suoi effetti si producono solo nei confronti dei creditori che vi aderiscono, sarebbe logico che le proposte di transazione, ove siano convenienti per l’Erario, potessero essere approvate “in supplenza” anche qualora non siano “decisive”. Se rappresentano la miglior soluzione per l’Erario, infatti, la loro approvazione gioverebbe allo Stato ancor prima che all’impresa debitrice. Tuttavia la disposizione introdotta nel comma 5 dell’art. 182-bis, richiedendo anche il presupposto della decisività dell’adesione, impedisce questa conclusione, e al tempo stesso il superamento delle antinomie sopra indicate.
Un caso ancora diverso è peraltro quello rappresentato da un accordo di ristrutturazione cui aderiscano creditori diversi da Fisco ed enti che rappresentino da soli già almeno il 60% dei crediti complessivi, i quali condizionino la loro adesione a quella dell’Agenzia delle entrate e degli enti previdenziali e assistenziali, in quanto ritenuta necessaria ai fini del risanamento finanziario e patrimoniale dell’impresa debitrice13; in questa ipotesi l’adesione del Fisco e degli enti dovrebbe essere considerata decisiva, nonostante i relativi crediti siano inferiori al 40% dei crediti complessivi, in quanto comunque indispensabile ai fini dell’adesione degli altri creditori.
Un’ulteriore questione attiene il caso in cui, affinché possano essere raggiunte le maggioranze o le percentuali richieste, sarebbe sufficiente l’adesione da parte del Fisco solo con riguardo a una porzione del credito tributario, anziché sull’intero importo. Si pensi, per esempio, al caso in cui il debitore abbia raggiunto l’accordo per la ristrutturazione del debito con creditori rappresentanti il 50% dei crediti complessivi, ma non con l’Erario, i cui crediti rappresentano il 40% dell’esposizione debitoria complessiva. In tale ipotesi, poiché la transazione fiscale concerne necessariamente il trattamento della totalità dei crediti tributari, la trasformazione della mancata adesione in adesione deve riguardare l’intero importo degli stessi (e non soltanto l’ammontare dei crediti strettamente necessario al superamento della soglia del 60%)14.
4. Irrilevanza del preambolo sulla crisi economica originata dalla pandemia
La Legge n. 159/2020, nell’apportare le modifiche di cui trattasi agli artt. 180 e 182-bis l.f., premette che esse sono introdotte “in considerazione della situazione di crisi economica per le imprese determinata dall’emergenza epidemiologica da COVID-19”. Qualche primo commentatore, tradendo un’evidentemente ammirazione per il Gattopardo, ha insinuato che conseguentemente tali modifiche si renderebbero applicabili solo con riguardo alle crisi originate dalla pandemia e cesserebbero di esserlo non appena gli effetti economici generati dalla pandemia verranno meno (come se ciò dovesse avvenire in un preciso istante scandito dal Big Ben). A poco rileva il motivo che ha originato l’introduzione delle modifiche in parola, le quali troveranno applicazione semplicemente dalla data stabilita dalla stessa Legge n. 159/2020 fino a quando non saranno abrogate e con riguardo a debiti fiscali e contributivi sorti in qualsiasi momento e per qualsiasi causa, atteso che le norme della Legge fallimentare oggetto di integrazione non dispongono diversamente e non consentono alcuna distinzione circa le cause della crisi dell’impresa che formula le proposte di transazione e il momento di insorgenza dei debiti oggetto di tali proposte. Tra l’altro l’operato del legislatore è molto chiaro e la sorte delle disposizioni di cui trattasi è segnata con altrettanta chiarezza: (i) il 1° settembre 2021 entrerà in vigore il Codice della crisi d’impresa, che, dopo le modifiche a esso apportate dal D.Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147 (c.d. Decreto correttivo), già contiene tutte le norme introdotte dalla Legge n. 159/2020; (ii) a causa della crisi economica provocata dall’emergenza epidemiologica è stato ritenuto utile anticiparne l’entrata in vigore, rendendole applicabili senza soluzione di continuità sino a quando non entrerà in vigore il Codice stesso, le cui disposizioni rimarranno vigenti sino a quando non saranno abrogate da altre norme di legge (per di più il periodo intercorrente tra l’entrata in vigore delle modifiche di cui trattasi e il 1° settembre 2021 è così breve da potersi escludere che la situazione di crisi causata dalla pandemia cesserà prima di quest’ultima data).
5. Entrata in vigore delle nuove norme
La Legge n. 159/2020 è entrata in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, cioè il 4 dicembre 2020, e non prevede disposizioni transitorie. Le norme di cui trattasi, che hanno natura processuale, sono pertanto da ritenere applicabili anche alle proposte di transazione presentate anteriormente a tale data, purché, con riguardo ai concordati, non siano ancora state concluse le operazioni di voto e, con riguardo agli accordi di ristrutturazione, non sia ancora stata presentata la domanda di omologazione del “fascio” di accordi di cui la transazione fa parte. Indipendentemente da ciò, finché non è spirato il termine di cui all’art. 177 l.f., l’impresa debitrice può anche modificare la proposta di concordato preventivo precedentemente formulata ovvero rinunciare alla procedura e avviarne una nuova sulla base di una diversa proposta, così come può rinunciare alla domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione già formulata e proporne una modificata15. Simili condotte non sarebbero da considerare abusive, in quanto finalizzate alla fruizione di una disposizione di legge introdotta per evitare “ingiustificate resistenze” da parte del Fisco e degli enti previdenziali, che in tal modo verrebbero appunto superate in conformità con (e non violando) la ratio della novella legislativa.
[1] Con riferimento ai contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie, occorre rammentare che, ai sensi dell’art. 3, comma 1-ter, del D.L. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito, con modificazioni, dalla citata Legge n. 159/2020, dalla data del 4 dicembre 2020 “cessa di avere applicazione il provvedimento adottato ai sensi dell’art. 32, comma 6, del Decreto-Legge 29 novembre 2008, n. 185“, vale a dire il Decreto interministeriale 4 agosto 2009, con il quale il Ministro del Lavoro aveva regolamentato puntualmente i criteri di trattamento dei crediti degli enti previdenziali e assistenziali. L’efficacia di detto decreto, invero, era da ritenersi di fatto superata già a seguito della riformulazione dell’art. 182-ter l.f. a decorrere dal 1° gennaio 2017 ad opera della Legge 11 dicembre 2016, n. 232, sebbene detti istituti non ne abbiano mai preso atto.
[2] La Corte di Appello di Venezia (ord. 22 agosto 2020, n. 2188) ha però rilevato che nella relazione ex art. 161 l.f., oltre all’ipotesi del fallimento, quale verosimile scenario alternativo andrebbe presa in esame (ricorrendone i presupposti) anche l’ipotesi dell’accesso alla procedura di amministrazione straordinaria, allo scopo di accertare se essa sia più conveniente per i creditori, cumulando la possibilità di esercitare le azioni revocatorie (e di responsabilità) e la prosecuzione dell’attività industriale.
[3] Cfr. G. Lo Cascio, “Concordati, classi di creditori e incertezze interpretative”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, 2009, pag. 1135.
[4] Cfr. F. Santangeli, “Auto ed etero tutela dei creditori nelle soluzioni concordate delle crisi d’impresa”, in Il Diritto fallimentare e delle società commerciali, I, n. 5/2009, pag. 620; V. Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, pagg. 164 e 165; E. Mattei, “La transazione fiscale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti”, in AA.VV., Trattato delle procedure concorsuali, L. Ghia – C. Piccininni – F. Severini (a cura di), Torino, vol. 4, 2011, pag. 740. A favore di detta tesi si vedano L. Stanghellini, “Proposta di concordato”, in AA.VV., Il nuovo diritto fallimentare, (diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani), Bologna, 2007, pagg. 194-195; P.G. De Marchi, “Il concordato preventivo alla luce del ‘Decreto correttivo’”, in AA.VV., Le nuove procedure concorsuali, S. Ambrosini (a cura di), Bologna, 2008, pag. 495.
[5] Cfr. G. D’Attorre, “La distribuzione del patrimonio del debitore tra absolute priority rule e relative priority rule”, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, n. 89/2020, pag. 1075, nota n. 9.
[6] Cfr. G. Angelini G. Dan, “‘Nuova transazione fiscale’: applicazione da uniformare”, in Il Sole – 24 Ore – Norme e tributi del 28 dicembre 2020, e M. Ferro, “Legge n. 159/2020: il giudizio di convenienza supplisce nei concordati al mancato voto dell’ente pubblico per debiti tributari e previdenziali”, in Il quotidiano giuridico del 7 gennaio 2021, il quale, con riguardo al concordato preventivo, talora intende la locuzione “in mancanza di voto” nel senso di “in difetto di voto positivo” o di “mancato voto positivo” (così equiparando sul punto l’ipotesi del voto negativo alla mancanza di voto), talora afferma invece che il potere decisorio al Tribunale ricorre in caso di “non voto” o di “astensione dal voto” da parte degli enti creditori pubblici.
[7] Cfr. L. De Bernardin, “Brevi note a prima lettura sull’omologa dei piani di ristrutturazione con trattamento dei crediti tributari e contributivi”, in blog.ilcaso.it del 2 gennaio 2021, pagg. 6 e 7, la quale lamenta altresì il fatto che l’introduzione delle norme in commento nella Legge fallimentare avrebbe richiesto, in maniera sistematica, l’inserimento anche di altre previsioni del Codice della crisi d’impresa, quali l’art. 341 che estende le sanzioni penali a tutte le ipotesi di indicazione nel piano di risanamento di attività inesistenti ovvero di crediti in tutto o in parte inesistenti, e l’art. 44, che impone l’obbligo della “nomina del commissario giudiziale nell’ipotesi di ricorso per la procedura di concordato preventivo e – in pendenza di istanza di apertura della liquidazione giudiziale – di ricorso per l’omologa di accordi di ristrutturazione al fine non solo di consentire al Tribunale un più accurato controllo ed esame della situazione dell’impresa ma anche di rendere l’ordinamento italiano in linea con la previsione della direttiva Insolvency che richiede la nomina di professionista nel campo della ristrutturazione nell’ipotesi di sospensione generale delle azioni esecutive e nell’ipotesi di ristrutturazione trasversale”.
[8] Si vedano in tal senso L. Gambi, “Alcune note sul nuovo cram down nella transazione fiscale e contributiva”, in ilblog.ilcaso.it del 13 gennaio 2021, pag. 5, che valorizza la funzione svolta dall’avverbio “anche” a supporto dell’interpretazione letterale estensiva; L. Calò, “La transazione fiscale e contributiva in mancanza di adesione da parte dell’Agenzia delle entrate e degli istituti previdenziali”, in www.ilfallimentarista.it, 5 gennaio 2021, pag. 5.
[9] Nello stesso senso si veda Consiglio di Stato, Sez. IV, 14 luglio – 28 settembre 2016, n. 4021.
[10] Si è dunque ritenuto di accogliere il suggerimento a suo tempo prospettato dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, Osservazioni in tema di transazione fiscale, aprile 2010, pagg. 6 e 7.
[11] In senso analogo L. Gambi, cit., pagg. 6-8.