di Giulio Andreani
La norma non disciplina i casi in cui la proposta viene modificata nella trattativa
Nel caso in cui la proposta inizialmente presentata sia stata oggetto di modifiche nel corso delle trattative
condotte con le agenzie fiscali, il termine di 90 giorni non può decorrere nuovamente dalla presentazione di
ogni modifica, come alcuni uffici periferici dell’amministrazione finanziaria invece ritengono.
Infatti, variazioni della proposta originaria sono fisiologiche, non influenzano la situazione debitoria e
finanziaria e generalmente non stravolgono il piano di risanamento già presentato. Pertanto, il termine di
90 giorni, incrementato dell’ulteriore termine di 30 giorni previsto per l’opposizione, è stato evidentemente
determinato dal legislatore considerando anche gli effetti delle trattative che fisiologicamente seguono la
presentazione della proposta e le modifiche che inevitabilmente ne derivano.
Per contro, è necessario evitare, da parte dei contribuenti, condotte non informate al principio di
trasparenza e leale collaborazione, quali potrebbero essere, ad esempio, quelle costituite dalla
introduzione di modifiche della proposta proprio allo spirare del novantesimo giorno, in assenza di
interlocuzioni precedenti con gli uffici finanziari mediante le quali siano state adeguatamente illustrate.
Le norme vigenti, ove interpretate alla luce del principio di trasparenza e leale collaborazione, già
forniscono, quindi, una soluzione, ma una sua espressa regolamentazione è comunque da ritenersi
opportuna. A questo fine potrebbe essere utile una revisione dell’articolo 63, comma 2, del Codice,
prevedendo che, in caso di modifica della proposta di transazione, il termine di 90 giorni sia da intendersi
prorogato di un numero di giorni pari alla metà di quelli trascorsi dalla data di presentazione della proposta
(ad esempio, nel caso di proposta depositata da 70 giorni il temine di 90 giorni diverrebbe di 125, con un
residuo margine di 55 giorni a favore dell’amministrazione finanziaria, e, per una proposta presentata da 80
giorni, tale temine diverrebbe di 130 giorni, con un residuo margine di 50 giorni).
Al tempo stesso sarebbe opportuna una revisione anche dell’articolo 44 del Codice, il quale stabilisce che, a
seguito della presentazione della domanda di concordato in bianco (o con riserva), il tribunale fissa un
termine compreso tra 30 e 60 giorni, prorogabile su istanza del debitore in presenza di giustificati motivi e
in assenza di domande per l’apertura della liquidazione giudiziale, fino a ulteriori 60 giorni, entro il quale il
debitore deposita la proposta di concordato preventivo ovvero la domanda di omologazione degli accordi
di ristrutturazione dei debiti o del piano di ristrutturazione di cui all’articolo 64-bis del Codice.
Sulla base delle norme vigenti, quando è pendente un’istanza di apertura della liquidazione giudiziale, una
domanda di regolazione della crisi deve quindi essere necessariamente depositata, pena l’apertura della
liquidazione giudiziale, prima che il termine di 90 giorni sia trascorso, discendendone la sostanziale
impossibilità, in presenza di debiti tributari da ristrutturare, di dar corso a un accordo di ristrutturazione dei
debiti con transazione fiscale (salvo il caso in cui questa venisse approvata dal Fisco entro tale termine, il
che non accade mai) e la conseguente possibilità di far ricorso esclusivamente al concordato.
Il più delle volte tale situazione è da imputare al ritardo con cui il debitore affronta la situazione di crisi in
cui viene a trovarsi, ma, ciononostante, un’estensione del termine previsto dall’articolo 44 da 60 a 90 giorni
sarebbe opportuna, perché permetterebbe un più proficuo uso degli istituti disciplinati dal Codice per il
superamento della crisi, evitando la distorsione evidenziata.