di Giulio Andreani
A seguito della riforma della legge fallimentare, l’imprenditore è lasciato libero di scegliere le soluzioni ritenute più utili alla definizione della crisi della sua impresa, al di fuori di uno schema precostituito, tanto nel predisporre la domanda di ammissione alla procedura del concordato preventivo, quanto nella stipula degli accordi di ristrutturazione dei debiti. Pur in presenza di una tale libertà, è facile che il piano concordatario o l’accordo di ristrutturazione contengano la previsione di addivenire alla cessione (integrale o parziale) dei beni relativi all’impresa, quali immobili, impianti, macchinari, ecc..
A differenza di quanto accade per le imprese assoggettate al fallimento, la disciplina del reddito d’impresa imponibile cui soggiace l’impresa ammessa alla procedura del concordato preventivo resta – a prescindere dalle previsioni del piano concordatario – quella ordinaria, regolamentata dagli artt. 83 ss., TUIR. Atteso che, ai sensi dell’art. 86, comma 1, TUIR, le plusvalenze dei beni relativi all’impresa, diversi da quelli costituenti “beni-merce”, “concorrono a formare il reddito: a) se sono realizzate mediante cessione a titolo oneroso; b) se sono realizzate mediante il risarcimento, anche in forma assicurativa, per la perdita o il danneggiamento dei beni; c) se i beni vengono assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa” [1], il legislatore fiscale ha previsto una disposizione speciale nell’art. 86, comma 5, TUIR.
L’irrilevanza fiscale delle plusvalenze e delle minusvalenze derivanti dalla cessione dei beni ai creditori ex art. 86, c. 5, TUIR
Il tema della tassazione delle plusvalenze realizzate nel corso dell’esecuzione del concordato preventivo, con prevalente riferimento a quello per cessione dei beni, è stato lungamente discusso, pur prevalendo la tesi che negava l’imponibilità di tali plusvalenze, dubitandosi dell’esistenza di un’effettiva capacità contributiva nell’ambito di una procedura che comporta, da un lato, la spoliazione del debitore di tutti i suoi beni e, dall’altro, non consente ai creditori di recuperare interamente i loro crediti[2].
I dubbi interpretativi furono risolti con l’emanazione del TUIR, contenente la seguente disposizione: “la cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo non costituisce realizzo delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e al valore di avviamento” (art. 86, comma 5).
Invero, questa previsione non era contenuta nell’originario schema di Testo Unico portato all’esame della commissione parlamentare dei trenta presieduta dall’On.le Usellini (tant’è che non v’è traccia di essa nella relativa relazione), ma fu inserita nel TUIR solo in occasione della stesura definitiva del decreto, dapprima nell’art. 125 (ora art. 183), comma 5, nell’ambito della disciplina del reddito d’impresa nei casi di fallimento e di liquidazione coatta amministrativa. La collocazione inizialmente prescelta destò subito alcune perplessità in ordine alla reale modalità di tassazione del reddito d’impresa imponibile maturato durante la procedura di concordato preventivo e, segnatamente, alla possibilità di applicare a tale reddito la medesima disciplina prevista per i casi di fallimento e liquidazione coatta amministrativa. Del resto, la suddetta commissione, a corredo del commento delle disposizioni presenti nell’art. 125, aveva
invitato il legislatore a “estendere l’applicazione di tali norme anche alla liquidazione a seguito di concordato preventivo con cessione dei beni”.
Con l’emanazione del D.P.R. n. 42 del 4 febbraio 1988, la disposizione in commento fu spostata nell’art. 54, comma 6 (ora art. 86, comma 5), nell’ambito della disciplina generale delle plusvalenze, al solo scopo di chiarire che il reddito d’impresa maturato in sede di concordato preventivo resta assoggettato alla disciplina ordinaria, fatta salva la ricorrenza di disposizioni speciali, quali quella contenuta nell’art. 88, comma 4, e, per l’appunto, nell’art. 86 (ex 54), comma 5, TUIR.
In linea di principio, la disposizione contenuta nell’art. 86, comma 5, è stata ritenuta esplicativa della volontà legislativa di agevolare il ricorso alla procedura concordataria, evitando la nascita di un debito d’imposta che avrebbe dovuto gravare sulla medesima[3], nonché il possibile sorgere di un’obbligazione tributaria in capo ad un soggetto che non potrebbe adempiervi in quanto privato dell’intero patrimonio per effetto della cessione dei beni. In quest’ottica, l’irrilevanza fiscale concerne non solo i beni strumentali, ma anche le rimanenze di magazzino e l’avviamento, presupponendo la cessione in blocco dell’intero complesso aziendale (che, come noto, dà luogo all’emersione di un’unica plusvalenza o minusvalenza, a prescindere dalla presenza nel complesso aziendale di beni da cui originano ricavi).
Sul piano letterale la norma de qua sembra circoscrivere l’irrilevanza fiscale soltanto alla cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo, la quale operazione di per sé non è idonea a generare plusvalenze, in quanto priva – di regola – di effetti traslativi in capo ai creditori, verificandosi semplicemente l’attribuzione agli organi della procedura della legittimazione a disporre dei beni medesimi, nell’ambito di un mandato irrevocabile (in rem propriam) conferito a terzi (i creditori), anche nel loro interesse, a gestire e a liquidare il patrimonio ceduto[4].
Con la relazione sull’attività di accertamento espletata nel corso dell’anno 1994 il Secit concluse che il comma 6 dell’art. 54 avrebbe dovuto essere interpretato nel senso che (solo) la cessione dei beni ai creditori costituisce atto non idoneo a far emergere plusvalenze (e non qualsiasi, generica cessione a terzi). Seguendo questa impostazione, pertanto, la tassazione non si sarebbe dovuta ritenere esclusa, ma semplicemente sospesa fino al successivo verificarsi di uno degli eventi di cui all’art. 54 (ora art. 86), comma 1, TUIR (quale la vendita dei beni a terzi da parte del liquidatore giudiziale).
Secondo il Secit, a supporto di tale indirizzo militavano considerazioni di carattere logico-sistematico, come il differente meccanismo di determinazione del reddito d’impresa imponibile rispetto alla procedura fallimentare e il beneficio fiscale di cui godrebbero i terzi acquirenti ottenendo i relativi beni ad un valore fiscale corrispondentemente inferiore al costo di acquisto.
Tuttavia, la Corte di Cassazione ha giustamente respinto la suesposta tesi del Secit, in base alla quale il legislatore del TUIR, nell’introdurre la norma de qua, non avrebbe inteso risolvere il problema della tassabilità delle plusvalenze realizzate nel corso del concordato, ma solo rimarcare che l’omologazione del concordato preventivo con cessione di beni non produce di per sé alcuna plusvalenza tassabile (del resto, che tale evento fosse fiscalmente irrilevante era considerato del tutto pacifico in dottrina e in giurisprudenza già prima dell’emanazione del
TUIR[5], sicché, seguendo la tesi del Secit, si sarebbe dovuto concludere che la nuova non avrebbe fornito alcuna utilità alla soluzione in via legislativa di un’annosa querelle[6]).
Con la sentenza n. 5112 del 4 giugno 1996[7], infatti, i giudici di legittimità hanno testualmente affermato quanto segue: “malgrado le ambiguità della sua formulazione, essa riguarda (non la cessione dei beni ai creditori, ma) il trasferimento a terzi dei beni ceduti effettuato in esecuzione della proposta di concordato”, partendo dal corretto presupposto che la cessione dei beni ai creditori, quale particolare modo di attuazione del concordato preventivo, non produce il trasferimento della proprietà dei beni ceduti, ma legittima gli organi della procedura concordataria a disporre degli stessi, al fine di soddisfare i creditori nella misura indicata dalla proposta omologata. Ne discende che, dalla lettura combinata dell’art. 54, comma 6, con le fattispecie idonee a generare una plusvalenza individuate nel comma 1, lett. da a) a c), del medesimo articolo, e dovendosi chiaramente escludere la ricorrenza delle ipotesi sub b) e c) dapprima indicate, lo scopo del comma 6 dell’art. 5 non può che consistere nell’esclusione della cessione concordataria dei beni dalla fattispecie sub lett. a); di conseguenza, il regime tributario introdotto con il TUIR non può intendersi rivolto all’offerta dei beni ai creditori in sede di concordato, ma al trasferimento degli stessi a soggetti terzi da parte degli organi giudiziali.
A favore di quest’ultimo indirizzo depongono anche gli atti parlamentari, come evidenziato dagli stessi giudici di legittimità nella sentenza citata: “Dall’esame dei lavori preparatori (e, in particolare dal parere della Commissione dei trenta sullo schema del Testo unico) si ricava che l’obiettivo che si intendeva raggiungere con la disposizione in esame era proprio quello di ridurre l’onere ‘fiscale’ delle operazioni compiute nel corso della liquidazione concordataria. E questo conferma che, malgrado le ambiguità della sua formulazione, essa riguarda (non la cessione dei beni ai creditori, ma) il trasferimento a terzi dei beni ceduti effettuato in esecuzione della proposta di concordato. Né è da credere che, così interpretando la norma in esame, si vengano ad operare ingiustificate discriminazioni rispetto alla liquidazione volontaria e a quella fallimentare”.
A questa impostazione ha alla fine aderito anche l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 29/E del 1° marzo 2004, disattendendo il parere del Secit e riconoscendo che “l’agevolazione tributaria concessa dalla predetta disposizione ha ad oggetto non solo la ‘cessione dei beni ai creditori’, ma anche le vendite dei beni ceduti, effettuate (nei confronti di terzi) dal commissario giudiziale al fine di ricavare i mezzi liquidi necessari per soddisfare i creditori … la parte dell’utile di esercizio corrispondente alla plusvalenza conseguita a fronte della cessione dei beni (immobili) effettuata dalla Società … non configura componente reddituale imponibile ai fini dell’imposizione diretta”.
In conclusione, superando l’equivoco dato letterale, la disposizione de qua viene (condivisibilmente) interpretata nel senso che l’evento, individuato dal legislatore come inidoneo a generare plusvalenze imponibili, è in realtà rappresentato dalla vendita a terzi dei beni ceduti in sede di concordato con cessio bonorum, rivolgendosi quindi a tutti gli atti di realizzo dei cespiti attuati dal liquidatore incaricato dai creditori cessionari[8].
Ratio dell’irrilevanza fiscale e suo ambito applicativo
La stringata formulazione dell’art. 86, comma 5, tuttavia, pone ulteriori dubbi interpretativi in ordine all’ambito applicativo della disposizione ivi contenuta, con riferimento in primis alla presenza di residuo attivo che eventualmente sussista dopo il pagamento delle spese di giustizia e dei creditori.
Secondo un indirizzo minoritario, la non imponibilità delle plusvalenze di cui all’art. 86, comma 5, TUIR sarebbe giustificata solamente quando la cessione dei beni opera quale mezzo diretto al soddisfacimento dei creditori.
Pertanto, in presenza di un residuo attivo, la disposizione in esame non troverebbe applicazione, nemmeno in relazione alla quota della plusvalenza utilizzata per soddisfare i creditori.
Secondo un diverso indirizzo, l’irrilevanza fiscale delle plusvalenze realizzate in esecuzione della procedura concordataria opererebbe anche nel caso in cui questa si concluda con un residuo attivo, in base alla regola ermeneutica per cui ubi lex voluit dixit. Infatti, se il legislatore avesse intenzionalmente inteso assoggettare a tassazione l’eventuale residuo attivo, avrebbe previsto un regime fiscale differente per questa particolare ipotesi.
Infine, una terza tesi ritiene che l’irrilevanza fiscale del residuo attivo contrasterebbe con la ratio legis, poiché l’art. 86, comma 5, TUIR risponde allo scopo di non assoggettare a imposizione le plusvalenze realizzate nel corso della procedura concorsuale limitatamente alla parte preordinata a soddisfare i creditori, diversamente da quanto previsto in casi analoghi e, in particolare, con riguardo al fallimento[9]. Non sarebbe logico, infatti, assoggettare a imposizione l’eventuale residuo attivo maturato nel corso del periodo fallimentare e prevedere invece la completa detassazione del residuo attivo maturato nell’ambito del concordato preventivo con cessione dei beni, costituito dalla differenza tra corrispettivi di cessione e debiti soddisfatti.
Sebbene il tenore letterale della norma non sembri ostacolare la detassazione anche delle plusvalenze che concorrono al superamento del deficit concordatario, devolute all’impresa debitrice dopo la chiusura della procedura, a giudizio di chi scrive l’eventuale residuo attivo dovrebbe concorrere alla formazione del reddito, non verificandosi in proposito alcuno spossessamento e, quindi, nemmeno il presupposto su cui si fonda l’esclusione dalla tassazione delle plusvalenze de quibus.
Occorre altresì chiedersi se la norma in commento trovi applicazione con riguardo al concordato senza cessione dei beni e, in particolare, a quello con garanzia.
Invero, avverso tale estensione sembrano militare sia la lettera sia la ratio della norma. Sotto il profilo letterale, la norma contiene un esplicito riferimento esclusivamente al concordato con cessione dei beni. Sotto l’aspetto teleologico, nei concordati eseguiti secondo modalità diverse da quella della cessione integrale dei beni non si produce l’effetto dello spossessamento, che – come detto – costituisce il presupposto dell’esclusione delle plusvalenze dalla tassazione prevista dalla norma di cui trattasi. Ne discende che le relative plusvalenze – verificandosi nell’ambito dell’ordinaria attività produttiva – risultano imponibili secondo le ordinarie regole di determinazione del reddito d’impresa. Sul punto è stato anche sostenuto che ogni soluzione della crisi d’impresa che travalichi lo schema classico della cessione dei beni ai creditori non rientra nell’ambito previsto dall’art. 86, comma 5, TUIR[10].
Ad ogni modo, se nel concordato con cessione parziale dei beni l’imprenditore non subisce un vero e proprio spossessamento, l’esclusione della tassazione delle plusvalenze non opera quanto meno fino a concorrenza del valore delle attività non cedute, ma – alla luce del principio di capacità contributiva – l’ammontare imponibile non può eccedere l’ammontare del patrimonio conservato dall’impresa.
La disciplina fiscale delle plusvalenze e delle minusvalenze derivanti dall’attuazione dell’accordo di ristrutturazione
L’irrilevanza fiscale delle plusvalenze risulta circoscritta, dall’art. 86, comma 5, TUIR, a quelle realizzate nell’ambito del concordato preventivo con cessio bonorum. L’ulteriore questione interpretativa che si pone, dunque, concerne l’applicabilità di detta disposizione agli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Come già prospettato con riguardo alla riduzione dei debiti, qualora gli accordi di ristrutturazione previsti dall’art. 182-bis l. fall. potessero qualificarsi come una particolare forma di concordato preventivo, le plusvalenze realizzate a seguito della cessione dei beni eventualmente prevista dall’accordo di ristrutturazione sarebbero fiscalmente irrilevanti, rientrando nella previsione contenuta nell’art. 86, comma 5, TUIR. Tuttavia, si è altresì riferito che siffatta ricostruzione giuridica è stata finora respinta dalla giurisprudenza nonché dalla dottrina prevalente.
Ad avviso di chi scrive, anche in questa ipotesi dovrebbe far comunque eccezione l’accordo di ristrutturazione eseguito mediante l’integrale cessione dei beni ai creditori, in quanto il debitore consegue il medesimo effetto che potrebbe ottenere attraverso la procedura concordataria, senza però doverne subire i relativi costi.
[1] Per plusvalenza fiscale si intende il maggior valore realizzato rispetto a quello fiscalmente riconosciuto ai fini delle imposte dirette, ridotto degli ammortamenti dedotti e incrementato delle rivalutazioni eventualmente operate con rilevanza fiscale.
[2] Per una disamina delle varie tesi sul punto si veda M. A. Galeotti Flori, cit., pag. 149 ss.
[3] Cfr. R.M. n. 9/916 del 22 maggio 1980, nella quale era stato evidenziato che “la liquidazione – nella specie era con cessione dei beni ceduti in concordato preventivo – … va considerata … come vera e propria fase di gestione, sia pure straordinaria dell’impresa … risultando applicabili gli ordinari criteri di imponibilità”.
[4] Cfr. ex multis Cass., sentenze n. 5306 del 23 agosto 1991, n. 13626 del 18 dicembre 1991, n. 709 del 21 gennaio 1993, n. 5306 del 1° giugno 1999 e n. 10738 dell’11 agosto 2000. Tale tesi è stata confermata anche successivamente alla riforma apportata alla legge fallimentare nel 2005 (in tal senso cfr. Trib. Roma, sentenza del 23 luglio 2010). Questo indirizzo non trova applicazione nell’ipotesi in cui la cessione dei beni abbia eccezionalmente efficacia traslativa, rappresentando in quel caso una forma di datio in solutum (cfr. F. S. Filocamo, Commento all’art. 182 della l.f., La legge fallimentare, a cura di M. Ferro, Padova, 2011, pag. 2089). Sulle varie posizioni assunte in ordine alla natura giuridica della cessione di beni ai creditori, si veda G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2008, pag. 805 ss.
[5] Cfr. M. Bonafede, La tassazione delle plusvalenze nel concordato preventivo per cessione dei beni e la relazione 1994 del Secit, in Boll. trib., 1996, pag. 279.
[6] Cfr. G. Falsitta, Le plusvalenze nel nuovo Testo Unico: profili critici e restrittivi della nuova disciplina, in Il reddito d’impresa nel nuovo Testo Unico, 1988, pag. 401.
[7] Si vedano in tal senso anche le sentenze n. 22168 del 16 ottobre 2006 e n. 11699 del 21 maggio 2007.
[8] Cfr. G. Zizzo, Aspetti problematici della determinazione del reddito d’impresa in sede di chiusura della procedura fallimentare, in Rivista di Diritto Tributario, 1992, parte I, pag. 684.
[9] Sulle diverse tesi si vedano D. Di Prospero e E. Belli Contarini, Art. 54, comma 6 del TUIR: intassabilità del «residuo attivo» realizzato in sede di concordato preventivo, in Boll. trib., 2002, pag. 575.
[10] Cfr. C. Zafarana, Manuale tributario del fallimento e delle altre procedure concorsuali, 2010, Milano, pag. 279.