di Giulio Andreani e Angelo Tubelli
La Corte di Giustizia UE ha ripetutamente affermato che, in virtù del principio di neutralità dell’imposta, la base imponibile dell’IVA deve essere costituita dal corrispettivo realmente percepito dal soggetto passivo e l’amministrazione finanziaria non può riscuotere a titolo di imposta un importo superiore a quello da questi percepito a tale titolo; di conseguenza, quando l’insolvenza del debitore risulta certa o ragionevolmente certa, la normativa interna di ciascuno Stato deve (e non solo può) riconoscere al contribuente il diritto di recuperare la maggiore imposta versata all’erario e non incassata, così come deve prevedere la rettifica della detrazione a suo tempo operata dal debitore. Appaiono dunque in contrasto con detti principi alcuni dei chiarimenti forniti dall’Agenzia delle entrate in risposta a specifiche richieste di interpello riguardanti le diverse situazioni di crisi del debitore, per il cui superamento è opportuno un intervento del legislatore.
1. Premessa
La disciplina recata dall’art. 26, commi 2 e 5, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, è stata più volte oggetto di istanze di interpello, con riguardo sia ai presupposti per l’emissione della nota di variazione in diminuzione, sia agli effetti che ne derivano per il soggetto destinatario della stessa [1]. Riconfermando in sostanza le indicazioni da tempo fornite[2], l’Agenzia delle entrate ha assunto orientamenti che non sembrano del tutto coerenti con l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia UE.
2. Il quadro normativo di riferimento
Sulla scorta del principio di neutralità su cui, come più volte ha ribadito dalla Corte di Giustizia UE, l’intera disciplina dell’Iva è incentrata, la base imponibile di tale tributo è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto dal soggetto passivo e l’Amministrazione finanziaria non può dunque riscuotere a titolo di Iva un importo superiore a quello percepito al medesimo titolo dal soggetto passivo[3]. In attuazione di queste prescrizioni, al fine di consentire il recupero della maggiore imposta dovuta dal soggetto passivo rispetto a quella a lui corrisposta dal cliente, l’art. 90 della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 stabilisce quanto segue:
- In caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione, la base imponibile è debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri.
- In caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare al paragrafo 1.
Il diritto dell’Unione europea, dunque, circoscrive la rettifica in diminuzione di un’operazione a due distinte ipotesi, ovvero (i) annullamento, risoluzione, recesso e riduzione della base imponibile concordata tra le parti e (ii) mancato pagamento (totale o parziale) del corrispettivo da parte del debitore. Tale distinzione assume un’importanza dirimente, perché gli Stati membri hanno l’obbligo di consentire la rettifica per le fattispecie ricadenti nella prima categoria, mentre hanno facoltà di non riconoscerla per
quelle ricadenti nella seconda.
Per converso, atteso che l’art. 184 della citata Direttiva n. 2006/112/CE impone agli Stati membri di pretendere dal cessionario/committente la rettifica della detrazione operata inizialmente (“quando è superiore o inferiore a quella cui il soggetto passivo ha diritto”), l’art. 185 stabilisce, in maniera speculare rispetto al citato art. 90, quanto segue:
- La rettifica ha luogo, in particolare, quando, successivamente alla dichiarazione dell’IVA, sono mutati gli elementi presi in considerazione per determinare l’importo delle detrazioni, in particolare, in caso di annullamento di acquisti o qualora si siano ottenute riduzioni di prezzo.
- In deroga al paragrafo 1, la rettifica non è richiesta in caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate, in caso di distruzione, perdita o furto debitamente provati o giustificati, nonché in caso di prelievi effettuati per dare regali di scarso valore e campioni di cui all’articolo 16. In caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate e in caso di furto gli Stati membri possono tuttavia esigere la rettifica.
Nel nostro ordinamento il diritto del soggetto cedente/prestatore di rettificare in diminuzione l’imposta applicata è disciplinato dall’art. 26, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, quado l’operazione viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili[4] o per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive individuali rimaste infruttuose o a seguito di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis l.f., ovvero di un piano attestato ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett. d), l.f. pubblicato nel registro delle imprese o in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente. In tali casi, “il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell’articolo 19 l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell’articolo 25”.
In sostanza, la normativa interna accorda il diritto al soggetto passivo, che ha effettuato l’operazione, di rettificare in diminuzione quest’ultima sia in caso di sopravvenuta riduzione della base imponibile, sia in caso di non pagamento (totale o parziale) del prezzo convenuto. L’esercizio di tale diritto, mediante l’emissione di un’apposita nota di variazione in diminuzione, comporta il riconoscimento di una detrazione ad hoc da far valere secondo le regole ordinarie previste dall’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972 (per questa ragione, con la risposta n. 55 del 14/2/2019 l’Agenzia delle entrate ha evidenziato come la detrazione vada esercitata al più tardi con la dichiarazione relativa all’anno in cui si sono verificati i presupposti che hanno dato diritto all’emissione della nota di variazione in diminuzione[5]).
Del pari, il comma 5 dell’art. 26 disciplina gli effetti della rettifica in capo al cessionario/committente (cioè il soggetto passivo che ha ricevuto il bene o la prestazione di servizi, ovvero il debitore), stabilendo che, in caso di emissione della nota di variazione in diminuzione da parte del cedente o prestatore, “il cessionario o committente, che abbia già registrato l’operazione ai sensi dell’articolo 25, deve in tal caso registrare la variazione a norma dell’articolo 23 o dell’articolo 24, nei limiti della detrazione operata, salvo il suo diritto alla restituzione dell’importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa”. Pertanto, in base alla regola generale, all’esercizio da parte del creditore della rettifica in diminuzione della fattura originaria (al fine di poter recuperare l’imposta applicata e non riscossa) fa da contraltare l’obbligo per il debitore di annotare la nota di variazione nella propria contabilità IVA e, quindi, di registrare “a debito” l’imposta inizialmente detratta (per la parte non più spettante), con conseguente incremento del debito o riduzione del credito verso l’erario. In assenza di norme che dispongano diversamente, la suddetta regola generale dovrebbe essere applicata anche alle rettifiche in diminuzione che trovano causa nell’assoggettamento del debitore a una procedura concorsuale (fallimento e concordato preventivo), nonché nel ricorso da parte di quest’ultimo all’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.f. o al piano attestato di cui all’art. 67, comma 3, lett. d), della medesima legge[6].
Il legislatore nazionale, infatti, non si è avvalso della facoltà (accordata dall’art. 90, par. 2, e dall’art. 185, par. 2, della Direttiva 112/2006/CE) di non comprendere il mancato pagamento del prezzo tra gli eventi che legittimano la rettifica in diminuzione in capo al cedente/prestatore, da un lato, e che obbligano il cessionario/committente a rettificare la detrazione, dall’altro[7].
Tuttavia, la normativa interna risulta difforme dal diritto dell’Unione europea poiché ha classificato tra le ipotesi di mancato pagamento quelle costituite da una procedura concorsuale, da un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis l.f. o da un piano attestato di cui all’art. 67, comma 3, lett. d), l.f., mentre la Corte di Giustizia UE[8] ha sostenuto che la riduzione del credito originata dall’omologazione definitiva di un concordato (disciplinato – nella fattispecie esaminata dalla Corte – dal diritto sloveno) costituisce un mutamento degli elementi presi in considerazione per determinare l’importo delle detrazioni (e non un’ipotesi di non pagamento)[9]. Ciò perché il cessionario/committente resta debitore (non più del prezzo inizialmente convenuto, ma) dell’importo definito all’esito della procedura, mentre il creditore non può più far valere dinanzi all’autorità giudiziaria la parte del suo credito definitivamente stralciata a seguito della riduzione delle obbligazioni del debitore nei suoi confronti.
Poiché in presenza di queste circostanze non si ricade nell’ipotesi del “mancato pagamento del prezzo di una fattura” e quindi non opera la deroga concessa dal paragrafo 2 dell’art. 90 della Direttiva 112/2006/CE, lo Stato membro non dispone della facoltà di non riconoscere al creditore il diritto di vedersi restituita (mediante la rettifica in diminuzione dell’operazione) l’imposta non versatagli dal debitore; né può impedirne il concreto esercizio attraverso l’imposizione di irragionevoli vincoli e condizioni (come accade con la pretesa di attendere la definitiva chiusura del fallimento per acquisire l’inoppugnabile certezza della perdita)[10]. Per la medesima ragione in tali casi non può più ritenersi operante neanche la deroga accordata dal successivo art. 185, par. 2 e, conseguentemente, lo Stato membro non dispone della facoltà di non pretendere dal debitore la rettifica della detrazione originariamente operata, avendo l’obbligo di richiederla[11].
In sostanza, secondo la Corte di Giustizia UE la facoltà di deroga prevista dal par. 2 dell’art. 90 della Direttiva 2006/112/CE non può essere intesa in termini assoluti ma relativi, nel senso che essa è stata concessa in considerazione delle difficoltà e delle incertezze che possono caratterizzare il giudizio avente ad oggetto lo stato di insolvenza del debitore, sicché per ciascuno Stato membro la possibilità di non riconoscere il diritto di rettifica in diminuzione ha una valenza solo temporanea, fintantoché il mancato incasso di tutto o parte del corrispettivo inizialmente pattuito non diventi certo o ragionevolmente certo; una volta verificatasi questa condizione, la citata facoltà di deroga non potrebbe più operare, pena la violazione del principio di neutralità. Le medesime considerazioni valgono, specularmente, con riguardo alla detrazione a suo tempo operata dal debitore.
3. La casistica esaminata dall’Agenzia delle entrate
Nell’ultimo anno l’assetto normativo sopra delineato è stato più volte considerato dall’Agenzia delle entrate in sede di risposta a specifiche istanze di interpello, attraverso l’esame delle problematiche concernenti il diritto di recupero della maggiore imposta dovuta da parte del cedente/prestatore nonché l’obbligo di riversare la maggiore imposta precedentemente detratta, con riguardo alle diverse fattispecie annoverate dal comma 2 dell’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972.
Il fallimento
La risposta n. 91 del 1° aprile 2019 riguarda il caso di tre società assoggettate alla procedura del fallimento, il credito verso le quali era stato ceduto pro-solvendo dall’originario creditore “Beta” a una terza società (che si era perciò insinuata nello stato passivo della fallita). In proposito è stato innanzitutto affermato che il soggetto legittimato ad effettuare la variazione in diminuzione resta l’originario creditore “Beta”[12] e poi che il dies a quo, per l’emissione della stessa, è rappresentato dal momento in cui l’infruttuosità della procedura assume carattere definitivo (il carattere infruttuoso delle procedure concorsuali, infatti, costituisce il presupposto per rettificare in diminuzione l’operazione); il che avviene, secondo l’Agenzia, solo con il decreto che dichiara esecutivo il riparto finale ai sensi dell’art. 117, comma 1, l.f. o, in alternativa, con il decreto di chiusura del fallimento ai sensi dell’art. 119 l.f.[13]. Con la risoluzione n. 155/E del 12 ottobre 2001, inoltre, era stato evidenziato che l’obbligo di registrazione della nota di variazione non avrebbe comportato alcun debito per IVA da versare in capo alla debitrice fallita, non potendosi includere il credito erariale derivante da detto documento nel riparto finale dell’attivo da considerare ormai definitivo (la sua registrazione, infatti, sarebbe unicamente strumentale al versamento della relativa imposta nell’eventualità di ritorno in bonis dell’impresa fallita).
Il concordato preventivo
Nell’ambito della risposta n. 113/2018, avente ad oggetto le note di variazione emesse nei confronti di una società in concordato preventivo, in ordine al dies a quo l’Agenzia ha invece sostenuto che, per accertare la definitiva infruttuosità della procedura, occorre aver riguardo, “oltre che alla sentenza di omologazione (articolo 181) divenuta definitiva, anche al momento in cui il debitore concordatario adempie agli obblighi assunti in sede di concordato. Fino a tale data, infatti, il concordato può essere risolto e può essere dichiarato il fallimento. In base a tali principi, suscettibili di applicazione anche al concordato in continuità aziendale, i creditori chirografari” possono emettere la nota di variazione in diminuzione solo dal momento in cui viene portata a compimento l’esecuzione del concordato[14]. Con il medesimo provvedimento di prassi, nonché con la risposta n. 54 del 30 ottobre 2008, l’Agenzia si è pronunciata anche sul trattamento che l’impresa debitrice deve riservare all’imposta alla stessa addebitata con le predette note, ribadendo che la regola generale sancita dal comma 5 dell’art. 26 “deve essere interpretata tenendo conto della disciplina e degli effetti tipici del concordato preventivo, nella parte in cui consente al debitore di evitare la dichiarazione di fallimento, adempiendo gli obblighi assunti nei confronti dei creditori. In particolare, … essendo la nota di variazione relativa ad un debito sorto prima dell’avvio della procedura concorsuale, la sua registrazione non comporta, per il debitore concordatario, l’obbligo di rispondere verso l’Erario di un debito sul quale si sono già prodotti gli effetti estintivi del concordato preventivo. Diversamente, … si avrebbe una deroga all’efficacia liberatoria della procedura, da ritenersi ingiustificata in relazione alle norme che dispongono l’estinzione di ogni debito sorto anteriormente all’inizio della procedura medesima”. È stata così riaffermata l’assenza di un obbligo di rettifica della detrazione, che troverebbe la sua giustificazione nelle stesse logiche che ispirano la procedura concorsuale e della più ampia finalità di esdebitazione del debitore cui la medesima è orientata; ciò perché il debito verso l’Erario, discendente dall’emissione della nota di variazione in diminuzione da parte del fornitore, si considera sorto in capo al cessionario/committente (cioè al debitore), come il credito cui è geneticamente connesso, anteriormente alla pubblicazione, nel registro delle imprese, della domanda di ammissione
alla procedura di concordato preventivo, restando quindi soggetto all’effetto esdebitatorio sancito dall’art. 184 l.f. (a norma del quale “Il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso di cui all’art. 161. Tuttavia essi conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso. Salvo patto contrario, il concordato della società ha efficacia nei confronti dei soci illimitatamente responsabili”).
Il piano attestato e l’accordo di ristrutturazione dei debiti
La medesima conclusione non è stata tuttavia ritenuta valida per l’impresa debitrice che ricorre al piano attestato di risanamento di cui all’art. 67, comma 3, lett. d), l.f. o all’accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis l.f., con la risposta n. 110 del 17 dicembre 2018 (per espressa previsione normativa, in questo caso il dies a quo decorre dalla data di omologazione dell’accordo e dalla data di pubblicazione del piano attestato nel registro delle imprese)[15]. Infatti, in conformità con quanto già sostenuto nell’ambito della circolare 8 aprile 2016, n. 12/E, secondo l’Agenzia in tali casi opera la regola generale prevista dal comma 5 dell’art. 26, non trovando applicazione l’esdebitamento sancito dal citato art. 184 l.f. (che – come dianzi riferito – giustificherebbe l’esonero dal versamento della maggiore imposta non spettante in detrazione); di conseguenza, “permane l’obbligo del cessionario o committente di registrare la variazione, in rettifica della detrazione originariamente operata. Pertanto, il cedente o prestatore del servizio può portare in detrazione l’IVA, nella misura esposta nella nota di variazione, mentre la controparte è tenuta a ridurre in pari misura la detrazione che aveva effettuato, riversando l’imposta all’Erario”.
Le procedure esecutive individuali
Con la risposta all’istanza di consulenza giuridica n. 2 del 24 gennaio 2019 l’Agenzia è infine intervenuta sul mancato pagamento risultante da procedure esecutive individuali rimaste infruttuose, rimarcando innanzitutto che, ai sensi del comma 12 del citato art. 26, una procedura esecutiva individuale si considera in ogni caso infruttuosa:
- a) nell’ipotesi di pignoramento presso terzi, quando dal verbale di pignoramento redatto dall’ufficiale giudiziario risulti che presso il terzo pignorato non vi sono beni o crediti da pignorare;
- b) nell’ipotesi di pignoramento di beni mobili, quando dal verbale di pignoramento redatto dall’ufficiale giudiziario risulti la mancanza di beni da pignorare ovvero l’impossibilità di accesso al domicilio del debitore ovvero la sua irreperibilità;
- c) nell’ipotesi in cui, dopo che per tre volte l’asta per la vendita del bene pignorato sia andata deserta, si decida di interrompere la procedura esecutiva per eccessiva onerosità.
Al riguardo, l’Agenzia ha rilevato che nella citata lett. a) non è precisato se la procedura del pignoramento presso terzi sia quella di cui agli artt. 543 e ss. c.p.c. oppure un’altra procedura che, pur svolgendosi presso “terzi”, rientri nell’ambito dell’espropriazione mobiliare presso il debitore (come nell’ipotesi di cui all’art. 513, commi 3 e 4 c.p.c.). Posto che il fattore comune delle fattispecie descritte nel comma 12 è l’accertamento dell’infruttuosità della procedura da parte di un organo super partes (ufficiale giudiziario e/o giudice dell’esecuzione), “il presupposto legittimante la variazione in diminuzione viene ad esistenza quando il credito del cedente del bene o prestatore del servizio non trova soddisfacimento attraverso la distribuzione delle somme ricavate dalla vendita dei beni dell’esecutato ovvero quando sia stata accertata e documentata dagli organi della procedura l’insussistenza di beni da assoggettare all’esecuzione”. Non possono invece assumere rilevanza a tal fine i pignoramenti cosiddetti “esplorativi” (con cui il creditore attiva la procedura del pignoramento allo scopo di acclarare la mera presenza presso una banca di rapporti attuali con il debitore esecutato) o “intermedi” (con cui il creditore individua il titolo giuridico del credito pignorato senza riuscire tuttavia a precisare l’entità della somma dovuta dal terzo).
Alla medesima conclusione l’Agenzia era giunta già con la risposta n. 64 del 9 novembre 2018, rimarcando che ai fini dell’emissione della nota di variazione per mancato pagamento non rilevano né l’eventuale antieconomicità della procedura esecutiva (allorché i relativi costi si rivelino addirittura superiori all’importo da incassare) né la modesta entità del credito, restando sempre necessario “dare prova di avere esperito tutte le azioni volte al recupero del proprio credito senza trovare soddisfacimento”. In tale ambito la spettanza del diritto è stata però riconosciuta se il contribuente dimostra di avere esperito
ripetuti tentavi di recupero (sia a titolo personale, sia avvalendosi dell’autorità giudiziaria) rimasti privi di riscontro per l’accertata irreperibilità del debitore, trattandosi di circostanze che attestano l’infruttuosità dell’azione di recupero, come in caso di inesistenza di beni da aggredire accertata dai militari della Guardia di Finanza su incarico dell’Avvocatura distrettuale dello Stato[16].
In ogni caso, il dies a quo per l’emissione della nota di variazione in diminuzione decorre dal momento in cui la procedura esecutiva individuale intrapresa si è dimostrata infruttuosa[17].
4. Osservazioni critiche
Le indicazioni fornite dall’Agenzia delle entrate, sebbene ampie e motivate, appaiono non del tutto condivisibili.
Ci si riferisce, in primis, all’“arroccamento” sulla posizione secondo cui, per potere emettere la nota di variazione in diminuzione con riguardo a un credito verso un’impresa soggetta al fallimento o al concordato preventivo, occorrerebbe attendere la definitiva chiusura del fallimento ovvero, in caso di concordato, la materiale esecuzione degli obblighi imposti al debitore (e, quindi, non solo la sua omologazione). Tale indirizzo si pone in contrasto con il principio di neutralità, perché, procrastinando sine die il diritto di recuperare l’imposta, finisce di fatto per renderlo particolarmente oneroso o addirittura impedirlo (come accade, ad esempio, nel caso in cui il creditore debba cessare la propria posizione IVA senza poter attendere la definitiva conclusione della procedura). Esso, inoltre, viola il principio di proporzionalità, nel senso che i vincoli e le formalità sanciti dalla legislazione interna non possono eccedere quanto ragionevolmente necessario per verificare l’effettivo stato di insolvenza del debitore, laddove che in molti casi la perdita su crediti è oggettivamente accertabile anche molto tempo prima della chiusura della procedura. Lo ha rilevato espressamente la Corte di Giustizia UE, con la sentenza 23 novembre 2017, causa C-246/16, secondo cui la nota di variazione in diminuzione può essere emessa anche prima della definitiva chiusura della procedura concorsuale, dovendo tale diritto essere riconosciuto ogniqualvolta “il soggetto passivo segnala l’esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato”, senza che sia dunque necessario attendere la definitiva chiusura della procedura fallimentare (che, peraltro, in Italia richiede tempi molto prolungati) e l’attuazione del piano di riparto. Del resto, la violazione del principio di proporzionalità traspare anche dalla motivazione utilizzata a giustificazione di tale indirizzo con riguardo al concordato preventivo, ovvero che sarebbe necessario attendere la conclusione degli adempimenti assunti dal parte del debitore, giacché, fino a tale momento, il concordato potrebbe essere risolto e potrebbe essere dichiarato il fallimento: al riguardo, non v’è chi non veda come, verificandosi una tale ipotesi, la percentuale di soddisfazione spettante al creditore non risulterebbe certamente superiore a quella stabilita con l’omologazione del concordato.
Tali censure sono ora state ufficialmente mosse dall’Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili (AIDC), che con la denuncia n. 13 del 6 maggio 2019 ha sottoposto alla Commissione europea la questione della incompatibilità della prassi dell’Agenzia delle entrate (talora confortata alla giurisprudenza nazionale) con il diritto dell’Unione europea[18]. In particolare, considerato che la tesi dell’Amministrazione finanziaria discende dalla formulazione testuale dell’art. 26, comma 2, l’Associazione propone di inserirvi una disposizione che consenta l’emissione della nota di variazione in diminuzione anche “in presenza di elementi oggettivi che determinino l’irrecuperabilità del credito, nel momento della sua verifica” nonché “per i crediti non superiori complessivamente a € …., quando sia decorso un periodo di sei mesi dalla scadenza del termine di pagamento previsto contrattualmente”. La posizione dell’Agenzia, infatti, viene censurata anche in ordine alla necessità di azionare la procedura esecutiva individuale con riguardo al recupero di importo modesti e rimasti insoluti da un certo periodo di tempo, nonostante l’evidente antieconomicità di una tale azione (in quanto le spese legali e procedurali
da sostenere risulterebbero di ammontare superiore al credito stesso). In sostanza, viene chiesto di introdurre ai fini dell’Iva i medesimi criteri già recepiti nell’ordinamento delle imposte sui rediti e, precisamente, nell’art. 101, comma 5, del T.U.I.R.[19].
Destano altresì perplessità le distinzioni operate con riguardo agli effetti in capo al debitore in concordato preventivo (liquidatorio o in continuità) rispetto a quelli che si producono in presenza di un accordo omologato ai sensi dell’art. 182-bis l.f. o di un piano di risanamento attestato ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett. d), l.f., che si fonda sulla suddivisione, caratterizzante il concordato preventivo, tra debiti sorti prima dell’avvio della procedura (sui quali si producono gli effetti estintivi) e debiti sorti successivamente.
Infatti, come già in altre occasioni si è avuto modo di evidenziare, a non convincere sono proprio le ragioni poste dall’Agenzia delle entrate a fondamento dell’esonero dal versamento dell’imposta derivante dalla rettifica della detrazione originaria, sia con riferimento (a) alla individuazione (nella procedura di concordato preventivo) dei crediti oggetto dell’esdebitamento di cui all’art. 184 l.f., sia (b) in ordine al momento di insorgenza del debito discendente dal ricevimento di una nota di variazione in diminuzione ai sensi dell’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972. Si osservava infatti, quanto al profilo sub a), che il credito derivante dalla fornitura di beni e/o di servizi eseguita anteriormente alla data di efficacia di un concordato preventivo (di qualsiasi tipo) avrebbe dovuto essere costituito, non solo dall’importo corrispondente all’imponibile dell’operazione, ma anche dalla relativa imposta e che titolare ne sarebbe stato esclusivamente il fornitore (e non anche l’erario). Per quanto attiene al profilo sub b), si sarebbe dovuto considerare che i crediti e debiti verso l’erario conseguenti alla nota di variazione insorgono nel momento in cui quest’ultima viene emessa, e non nel momento di emissione della fattura rettificata dalla nota di variazione, secondo i principi generali dell’IVA[20]. Se dunque il debito verso l’erario, che sorge in dipendenza della nota di variazione, viene a esistenza solo dopo l’apertura della procedura concorsuale, esso non dovrebbe essere oggetto di esdebitamento ai sensi dell’art. 184 l.f.
In assenza di un espresso esonero per il debitore concordatario dall’obbligo di registrare la nota di variazione in diminuzione ricevuta e di computare conseguentemente “a debito” la relativa imposta (previsto, peraltro, espressamente dal comma 126 dell’art. 1 della L. n. 208/2015 e mai entrato in vigore), si paventava dunque la possibilità che, riguardo alle riduzioni dei debiti intervenute nel concordato preventivo con continuità aziendale, la rettifica in diminuzione dell’operazione imponibile potesse far sorgere l’obbligo di tenere conto dell’IVA corrispondente nella liquidazione del tributo dovuto; ciò con riguardo al concordato preventivo in continuità aziendale che non contempla la cessazione dell’impresa. Tale conseguenza può essere tuttavia scongiurata adottando la tesi secondo cui occorrerebbe distinguere l’obbligo del debitore di registrare “a debito” le note di variazione in diminuzione, di cui tenere conto al momento dell’apertura della procedura concorsuale (simmetricamente al riconoscimento del diritto di emetterle da tale momento), rispetto all’obbligo di versare all’erario l’imposta derivante dalla rettifica della detrazione, da trattare secondo la disciplina generale prevista per i crediti tributari[21], potendo essere questi, poi, in tal modo legittimamente soggetti a falcidia in base alle regole generali della procedura, senza che ciò costituisca una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione del tributo, come già chiarito dalla Corte di Giustizia UE[22].
In una prospettiva de iure condendo, appare comunque incoerente un ordinamento giuridico che preveda una così marcata differenziazione relativamente alla rettifica dell’IVA detratta dal debitore nella procedura di concordato preventivo con continuità aziendale, da un lato, e nell’accordo di ristrutturazione dei debiti o nel piano di risanamento attestato, dall’altro. Infatti, se può essere giustificato prevedere una diversa disciplina fiscale tra procedure con finalità prettamente liquidatorie e procedure con finalità di risanamento, non lo è “discriminare” fiscalmente una procedura di risanamento rispetto a un’altra che persegue la medesima finalità, come invece accade in conseguenza dell’interpretazione dell’art. 26,
commi 2 e 5, fornita dall’Agenzia delle entrate: così stando le cose, l’attuale formulazione normativa finisce per riproporre la stessa problematica che si era venuta a creare con riguardo all’imposizione delle sopravvenienze attive da esdebitamento, generata dalla formulazione dell’art. 88, comma 4, del T.U.I.R. vigente anteriormente alle modifiche recate dal D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147. È perciò auspicabile che il legislatore approdi, con riferimento alla disciplina dell’IVA, alla medesima conclusione cui è (già) giunto nel sistema dell’imposizione diretta, rimuovendo l’“ostacolo fiscale” che ad oggi – a parità delle altre condizioni – renderebbe per il debitore preferibile il ricorso al concordato preventivo anziché all’accordo di ristrutturazione dei debiti o al piano di risanamento attestato.
La differenziazione discendente dall’attuale assetto normativo appare altresì contraddittoria rispetto a uno degli obiettivi perseguite dal nuovo codice della crisi d’impresa, con il quale si intende introdurre un articolato “sistema d’allarme” che possa segnalare in maniera più tempestiva le difficoltà o lo stato di crisi in cui un’impresa si viene a trovare, al fine di favorire la normale continuazione dell’attività sulla base di una soluzione negoziale. Vero è che nel concordato preventivo opera il principio del cram down per cui il Fisco è costretto ad accettare la volontà della maggioranza pur non avendo votato a favore della proposta concordataria, mentre il medesimo effetto non si verifica con gli altri istituiti; è altrettanto vero, però, che si rivela preminente la necessità di evitare che la “variabile fiscale” possa incidere in maniera pesante sul ricorso a istituti che (nelle intenzioni del legislatore) dovrebbero risultare tra loro omogenei.
Del pari non appare coerente, da un lato, consentire a un’impresa in crisi, che fa ricorso all’accordo di ristrutturazione dei debiti, di falcidiare i propri debiti verso l’Amministrazione finanziaria tramite l’istituto della transazione fiscale e, dall’altro lato, costringerla ad assolvere per intero al debito verso la stessa, originato dalla rettifica dell’IVA detratta conseguente allo stralcio dei debiti pattuito dalla medesima impresa con i propri fornitori mediante il predetto accordo. In alternativa, potrebbe essere modificata la disciplina della transazione fiscale, estendendone l’oggetto, in maniera da consentire all’impresa in crisi di includervi anche il debito IVA discendente dalle note di variazione in diminuzione che verranno emesse dai fornitori della stessa, per ottenerne la riduzione.
[1] Cfr. D.A. Rossetti, R. De Pirro, “Note di credito IVA in attesa di restyling”, in il fisco n. 20/2019, pag. 1942; G. Giuliani, M. Spera, “Variazioni in diminuzione per procedure esecutive individuali rimaste infruttuose”, in il fisco n. 16/2019, pag. 1538; P. Centore, “Aritmia della rilevanza delle variazioni IVA”, in Corriere Tributario n. 4/2019, pag. 338; F. Gavioli, “Variazioni IVA in diminuzione in presenza di procedure esecutive individuali infruttuose: lo studio di Assonime”, in L’IVA n. 3/2019, pag. 13; G. Andreani, A. Tubelli, “Effetti per il debitore di concordato preventivo e note di variazione in diminuzione”, in Corriere Tributario n. 47-48/2018, pag. 3647; G. Provaggi, “Gli impatti della nota di credito emessa nel caso di procedura concorsuale”, in Corriere Tributario n. 21/2018, pag. 1623; B. Rossi, M. Brancalari, “Il recupero dell’IVA in caso di mancato pagamento”, in il fisco n. 15/2018, pag. 1419; A. De Rinaldis, “Concordato preventivo e rettifica della detrazione secondo la Corte di Giustizia”, in L’IVA n. 6/2018, pag. 20.
[2] Si vedano, in particolare, le circolari 7 aprile 2017, n. 8/E, e 17 aprile 2000, n. 77/E.
[3] Cfr. Corte di Giustizia UE, 3 luglio 1997, C-330/1995; 26 gennaio 2012, C-588/10; 15 maggio 2014, C-337/13; 2 luglio 2015, C-209/14; 23 novembre 2017, C-246/16.
[4] Il comma 3 dell’art. 26 non consente l’emissione della nota di variazione in diminuzione qualora gli eventi che la legittimerebbero si sono verificati dopo il decorso di un anno dall’effettuazione dell’operazione e in dipendenza di un sopravvenuto accordo tra le parti, come in caso di stipula di una transazione. Si veda da ultimo la risposta a interpello n. 178 del 3 giugno 2019.
[5] Se gli eventi che hanno determinato la variazione della base imponibile dell’operazione si sono verificati ante 1° gennaio 2017, il diritto alla detrazione può essere esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui esso è sorto, in base all’art. 19, comma 1, vigente ratione temporis. L’Agenzia ha altresì precisato che l’emissione della nota di variazione in diminuzione costituisce una facoltà concessa al contribuente, sicchè non è ammessa una volta scaduto il termine previsto; né a tale omissione può rimediarsi tramite la presentazione di una dichiarazione integrativa contenente la detrazione, non potendosi configurare come un errore da correggere la mancata emissione della rettifica entro il suddetto termine.
[6] È noto che, con l’art. 1, comma 127, della L. 28 dicembre 2015, n. 208, era stato previsto l’esonero per il debitore di registrare nella propria contabilità IVA la nota di variazione emessa dal creditore. Tuttavia, la suddetta previsione normativa, la cui efficacia fu inizialmente differita al 1° gennaio 2017, non è mai entrata in vigore, essendo stata poi abrogata (proprio da tale data) dall’art. 1, comma 567, della Legge 11 dicembre 2016, n. 232.
[7] Si ricorda che nel testo iniziale dell’art. 26 il mancato pagamento non rientrava tra gli eventi legittimanti l’emissione della nota di variazione in diminuzione. Tale previsione fu aggiunta solo con la L. 28 febbraio 1997, n. 30, in sede di conversione in legge del decreto legge 31 dicembre 1996, n. 669.
[8] Cfr. Corte di Giustizia UE, 22 febbraio 2018, C-396/16.
[9] Come si è però avuto di evidenziare in altra occasione (G. Andreani, A. Tubelli, cit.), con l’omologazione del concordato preventivo il credito eccedente la percentuale di soddisfazione è oggetto di remissione o di transazione ovvero di un obbligo legale de non petendo (che come tale non può essere fatto valere in sede giurisdizionale), ma tale effetto non discende da un accordo concluso tra creditore e debitore al fine di rideterminare il valore della fornitura del bene o del servizio inizialmente pattuita: ad essere rideterminati, infatti, sono unicamente i debiti dell’impresa debitrice e ciò esclusivamente in conseguenza della sua acclarata incapacità di far fronte ai propri impegni, a causa dello stato di insolenza dell’impresa debitrice stessa. Inoltre, gli effetti dell’omologazione si producono anche sui soggetti che non si sono pronunciati sulla proposta concordataria o che hanno espresso un voto contrario, sicché è lo stesso ordinamento giuridico (e non le singole parti contrattuali) a conferire alla proposta concordataria – in presenza di determinati presupposti – un’efficacia valevole per tutti i creditori, indipendentemente dalla loro manifestazione di volontà.
[10] Cfr. Corte di Giustizia UE, sentenza 23 novembre 2017, C-246/16.
[11] Cfr. Corte di Giustizia UE, sentenza 22 febbraio 2018, C-396/16.
[12] Con la risoluzione 5 maggio 2009, n. 120, avente ad oggetto il caso del credito ceduto pro-soluto, era stato chiarito che il soggetto legittimato all’emissione della nota di variazione è il cedente, a condizione che si sia insinuato al passivo del fallimento prima di aver ceduto il credito e che sia rimasto parte processuale.
[13] In tal senso si vedano già la circolare n. 77/E/2000 nonché le risoluzioni 12 ottobre 2001, n. 155/E, 18 marzo 2002, n. 89/E, e 16 maggio 2008, n. 195/E). A sostegno del proprio indirizzo interpretativo, l’Agenzia richiama le sentenze della Corte di Cassazione n. 27136 del 16 dicembre 2011 e n. 1541 del 27 gennaio 2014.
[14] È stato così confermato l’orientamento già espresso sul punto con la citata circolare n. 77/E/2000.
[15] Cfr. circolare n. 8/E/2017 (risp. 13.1).
[16] Sulla questione si veda in particolare Assonime, circolare n. 2 del 29 gennaio 2019, pagg. 8 e 9, secondo cui l’Agenzia delle entrate avrebbe operato una disparità di trattamento tra i soggetti privati e i soggetti pubblici, poiché questi ultimi, grazie all’intervento della Guardia di finanza o di altre autorità, possono far riscontrare l’inesistenza di beni aggredibili senza ricorrere a una procedura esecutiva.
[17] Cfr. circolare 17 aprile 2000, n. 77/E, ove si chiariva anche nella nozione di procedura esecutiva individuale rientrano anche quelle concernenti l’obbligo di consegna o di rilascio di un bene, a condizione che la mancata consegna o il mancato rilascio sia stata accertata dall’autorità preposta alla procedura.
[18] Si vedano G. Giuliani, M. Spera, “La rettifica IVA derivante dal mancato pagamento del corrispettivo”, in il fisco n. 24/2018, pag. 2341.
[19] Invero, una tale modifica normativa era stata già introdotta con il comma 126 dell’art. 1 della L. n. 208/2015, che – come detto – è stato però abrogato prima della sua entrata in vigore.
[20] Si veda quanto rilevato al riguardo dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 15059 del 2 luglio 2014, secondo cui l’emissione di una nota di variazione ai fini dell’IVA ha efficacia ex nunc, non generando alcun effetto “retroattivo”.
[21] Cfr. P. Centore, cit., pag. 343.
[22] Cfr. sentenza 7 aprile 2016, C-546/14.